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Uccisero Aldrovandi Indultati, liberi e di nuovo in servizio

La mamma di AldroI QUATTRO AGENTI CONDANNATI PER OMICIDIO COLPOSO FUORI DOPO SEI MESI. E LA POLIZIA NON LI HA ESPULSI.

La “lunga notte” della famiglia Aldrovandi non finisce mai. Anche oggi, anche in questi giorni, il dolore si rinnova insieme all’indignazione. Lo sdegno per uno Stato pavido, ambiguo, prende il sopravvento. Il calendario impazzisce e salta all’alba di cinque anni fa, quando gli occhi del loro ragazzo Federico, diciotto anni e un futuro davanti, fissano per l’ultima volta il cielo di Ferrara. Federico muore nello squallore di un parco di periferia. Ammazzato di botte. Cuore e polmoni compressi dal peso di chi gli spinge faccia e torace sulla terra. “Bastonato di brutto”. Con tanta, crudele forza che due manganelli, gli sfollagente, quelli lunghi, neri e duri, si rompono sulle sue ossa.
Il padre: “L’ultima violenza inflitta a mio figlio”
A picchiarlo quattro poliziotti. Tre uomini e una donna. Li hanno indagati, processati, condannati per omicidio colposo e eccesso colposo nell’uso delle armi. Ora, scontata la pena, in buona parte sfoltita grazie a sconti e indulti, tornano in servizio. Tesserino in tasca, pistola nel fodero, di nuovo con la divisa addosso a servire lo Stato. Monica Segatto, Paolo Forlani, Enzo Pontani, Luca Pollastri, agenti delle volanti “Alfa 2” e “Alfa 3” presenti quella malanotte del 25 settembre 2005, quando Federico urla inutilmente “basta” e implora “aiuto”, sono tornati al loro lavoro. Non a Ferrara, fa sapere il Dipartimento della polizia di Stato, e neppure in altre città dell’Emilia Romagna. Ma in questure diverse. Uno schiaffo in faccia a Lino Aldrovandi e Patrizia Moretti, i genitori di Federico. “Signor Pontani – ha scritto in una lettera suArticolo21.org   papà Lino rivolgendosi a uno dei poliziotti condannati – mi permetta di dirle che sia a lei che ai suoi tre colleghi, non vorrei mai più vedere una divisa così importante e preziosa addosso, per quello che dovrebbe rappresentare per tutti i cittadini di questo Stato: la legge”.
La madre: “Così vince la cultura dell’impunità”
Patrizia Moretti vive in un dolore perenne, ma non è una donna sconfitta. Le lacrime le segnano il viso ogni volta che pronuncia il nome di Federico, ma lei ha imparato a ricacciarle in gola per continuare a riflettere e lottare. “Quelle persone io non voglio più vederle in polizia. Possono offendermi nei loro blog, come hanno fatto. Ma loro hanno distrutto la vita di un ragazzo di 18 anni”. Ti fissa bene negli occhi, Patrizia, perché sa che sta per proporre un pensiero grave: “La giustizia, quella con la ‘G’ maiuscola, ci ha dato ragione, quindi la democrazia, con tutti i suoi difetti, funziona. Ma poi, di fronte alla notizia che i quattro tornano in servizio, pronti a rappresentare di nuovo la legge, ti accorgi che c’è un’altra faccia dello Stato. Quella debole, ambigua, che cede a pressioni di un potere altro, incontrollabile dal normale cittadino con i normali strumenti della democrazia. È il muro di acciaio contro il quale ci siamo scontrati in questi anni. È la cultura dell’impunità che abbiamo incontrato. Le ricordo bene le pressioni, i depistaggi, le offese alla memoria di Federico bollato come un tossico. Le manifestazioni sotto il mio ufficio”. “Faccia da culo, falsa e ipocrita”, le ha scritto Paolo Forlani su Facebook. Lino Aldrovandi, Patrizia Moretti e il loro infaticabile avvocato, Fabio Anselmo, hanno chiesto di poter consultare tutti gli atti. Accesso negato, è stata la risposta. Le regole della burocrazia sono crudeli, i sentimenti offesi e le vite lacerate contano zero. Ai quattro poliziotti è stata inflitta la sanzione più dura, informano dal Dipartimento della polizia di Stato, la sospensione di sei mesi dal servizio, dopo c’è solo la destituzione. Ed è quindi “naturale” che, scontata la pena, sei mesi di detenzione, visto che tre anni sono stati condonati grazie all’indulto, tornino in servizio. Chi ha deciso di fermarsi un attimo prima della decisione più grave, l’espulsione dalla polizia? Le commissioni disciplinari, composte da funzionari di polizia e rappresentanti dei sindacati, delle questure dove nel frattempo i poliziotti erano stati trasferiti. Un guazzabuglio di regole, commissioni, pareri, dentro il quale precipita l’immagine della polizia e la credibilità dello Stato.
Nessuno avvisò il magistrato di turno
Perché “il caso Aldrovandi” non è una faccenda privata, la tragedia di un ragazzo morto e della sua famiglia. No. Quello che è successo all’alba di un settembre ferrarese di cinque anni fa, interroga lo Stato e la qualità della democrazia del nostro Paese. Una storia che parla di violenze di un corpo di polizia, di depistaggi, di tentativi di deviare il corso della giustizia e l’accertamento della verità. “Abbiamo avuto una lotta di mezz’ora con questo. Lo abbiamo bastonato di brutto. È proprio matto”: parole a caldo di uno dei poliziotti condannati . Poi smentite nel corso del processo con maldestri tentativi di spiegare che “quello era il linguaggio”. Federico urlava e si dimenava perché in preda a “excited delirium syndrome”, la formula magica che doveva giustificare il pestaggio. Federico tossico abituale, insisteranno i poliziotti, “eroinomane” dirà l’impietoso onorevole Carlo Giovanardi. Le perizie si incaricheranno di dimostrare il contrario. Federicourlava perché picchiato. Schiacciato sull’asfalto, a terra, ormai morto, ma nessuno avvisa il magistrato di turno. La legge. Tutto lascia pensare, si legge nella sentenza di primo grado, “che quella presenza sul posto non fosse affatto gradita”. Sul “posto”, invece, arrivano una quindicina tra funzionari e dirigenti della Questura di Ferrara. Federico è ancora a terra, la sua famiglia non viene informata se non ore dopo, mentre decine di agenti bussano alle porte delle case vicine per le prime indagini.
Il testimone: “Sono venuti  a pararsi il culo”
“Sono venuti a pararsi il culo”, dirà una testimone. E i manganelli sequestrati cinque mesi dopo, “a genuinità dell’indagine inevitabilmente compromessa”. La volante che Federico avrebbe danneggiato con pugni e calci, invece, non viene mai sequestrata. Quante stranezze e quanta crudeltà. Il cellulare di Federico che squilla, un poliziotto che risponde dopo minuti interminabili e solo dopo essere stato autorizzato da un funzionario. È Lino, il padre. Vuole notizie del figlio. Gli chiedono i dati anagrafici del ragazzo. Poi troncano: “Stiamo effettuando degli accertamenti, le farò sapere, devo interrompere la comunicazione”. Federico era già morto. E questo, in un mare di bugie e depistaggi, era l’unica, tragica verità.
di Enrico Fierro
Il Fatto Quotidiano 26.01.2014

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