“Tu dammi le fotografie e io ti darò la guerra”: l’editore William Hearst al suo fotografo Frederick Remington che, nel 1898, non trovava a Cuba nessuna scena di inermi civili uccisi che giustificasse una invasione USA per portare la “democrazia” e il “rispetto dei diritti umani”.
È passato più di un secolo, ma le bufale di guerra alimentano sempre le stesse pulsioni. Intanto, bisogna intervenire subito per salvare vittime innocenti. Come i bambini belgi ai quali i soldati tedeschi mozzavano le mani. L’unico intellettuale italiano a protestare contro questa menzogna fu Benedetto Croce; gli altri – insieme a decine di migliaia di indignati socialisti – corsero ad arruolarsi e a morire nelle trincee della Prima guerra mondiale.
Le bufale servono poi a terrorizzare la popolazione: tenebrose “armi di distruzione di massa” in mano al tiranno di turno che deve, quindi, essere abbattuto insieme al suo Stato canaglia. E poi devono trasformare chi si oppone alla guerra (magari, smascherando le bufale) in una quinta colonna del nemico, capace di “intossicare l’informazione” o le reti di computer. Una serpe in seno da soffocare con la censura.
Ma torniamo alle foto chieste da Hearst. L’aspetto più ripugnante delle bufale di guerra è che, quasi sempre, sono attestate da “documentazioni” – come quella dei soldati di Gheddafi che stupravano le bambine utilizzando il viagra o dei cecchini di Assad che si allenavano sparando sul pancione di donne gravide – di una falsità evidente per un qualsiasi giornalista degno di questo nome.
Ma, allora, perché vengono pubblicate? Nel 2014 Udo Ulfkotte, già caporedattore del quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung, rivelava che lui e molti altri giornalisti europei, da anni, erano sul libro-paga della CIA e di altri Signori della Guerra. Vogliamo credere che non sia un fenomeno generalizzato e che la diffusione di evidenti bufale (si veda questo reportage della RAI dalla Siria) sia dettata dalla superficialità e dalla fretta di pubblicare subito? Certo che, se si guarda questo breve videoclip sulle bufale di guerra pubblicate da Repubblica (solo alcune delle innumerevoli), qualche dubbio appare lecito.
Dubbi che rischiano di diventare certezze analizzando la guerra mediatica contro la Siria. Guerra cominciata già nel 2010 con la (mai esistita) “Amina, la lesbica di Damasco“, continuata con un numero sbalorditivo di bufale – quali il bombardamento della panetteria, l’attacco con Sarin a Goutha, le “foto di Caesar“, gli ospedali pediatrici distrutti dall’aviazione di Assad, gli accordi tra Assad e l’ISIS, i barili bomba… – e che in questi giorni, con la liberazione di Aleppo, sta raggiungendo toni davvero grotteschi.
A riportare queste “fake news” (false notizie), che hanno generato guerre con milioni di morti sulla coscienza, sono state quelle corporazioni mediatiche che oggi vogliono utilizzare lo strumento delle “fake news” o della “cyber propaganda per conto di paesi terzi” per mettere un bavaglio alla rete. Quella stessa rete che negli ultimi dieci anni ha smascherato tutte le loro menzogne e ha impedito che nel 2013 in Siria si riproponesse un nuovo criminale intervento armato giustificato, come nel caso dell’Iraq e della Libia, da notizie rivelatesi tutte false come ha magistralmente dimostrato il premio Pulitzer Seymour Hersh.
Siamo dinanzi al rischio eclatante di cedere alla tentazione di dare ulteriore potere a dei censori che hanno già usato, contro di noi, ogni occasione utile. Non concediamoglielo.
di MoVimento 5 Stelle