Un tempo, quando almeno fingevamo di essere un paese normale, a ogni scandalo seguiva una legge per dare almeno la parvenza di un’inversione di rotta. Nel 1974, dopo il caso petroli, il Parlamento approvò la norma sui fondi pubblici e privati ai partiti, con il reato di finanziamento illecito per chi sgarrava. Nel 1993, in piena Tangentopoli, fu abolita l’autorizzazione a procedere per le indagini (la cosiddetta immunità parlamentare) e innalzata ai due terzi la maggioranza necessaria per amnistie e indulti. Poi, per vent’anni, gli scandali produssero annunci di giri di vite, regolarmente seguiti da colpi di spugna. Ora sono spariti anche gli annunci: non solo non si fa nulla per prevenire e reprimere più efficacemente o meno inefficacemente la corruzione, ma non si parla più neppure di farlo. L’altra sera, mentre affettava orrore per lo scandalo di Mafia Capitale (“manca solo Jack lo Squartatore”), Renzi ha teorizzato che “non c’è bisogno di nuove leggi, basta applicare quelle che ci sono”, prima di partire con la supercazzola sulle virtù taumaturgiche di Cantone e del commissario Orfini, e con l’autobeatificazione per l’eroico “commissariamento del Mose nel silenzio dei giornali” (bella forza: quelli del Mose sono tutti dentro). Strano, perché nella riforma epocale della giustizia annunciata a fine agosto c’era scritto anticorruzione, falso in bilancio, prescrizione, e tante altre belle cose finite in disegni di legge perlopiù annunciati, cioè in lettera morta. Si vede che era tutto uno scherzo. Poi, dopo la prescrizione in Cassazione del processo Eternit, Jack l’Annunciatore giurò: “Cambiamo subito la prescrizione”. Ma, quando dice subito, vuol dire mai. La legge anticorruzione era pronta a metà giugno: i deputati vi avevano lavorato un anno intero in commissione su un testo presentato da Grasso a inizio legislatura e poi abbondantemente emendato, e si accingevano a votarla in aula. Ma Renzi incontrò B. e Verdini e, come per incanto, annunciò che ne avrebbe presentata una nuova di zecca, avviando così quella parlamentare sul binario morto. Poi naturalmente non presentò quella governativa. Perciò – come si legge ogni giorno sulle gazzette di regime – “il patto del Nazareno tiene”. In attesa del Patto della Magliana, destinato a tenere ancor meglio di quell’altro, anche perché Massimo Carminati detto Er Guercio o l’Ottavo Re di Roma ha metodi davvero persuasivi, viene da domandarsi che cos’altro deve scoprire la magistratura perché questo governo di inetti prenda un’iniziativa e perché il presidente della Repubblica ci regali un monito dei suoi.
Ultimamente Re Giorgio si fa vivo solo per smentire le indiscrezioni che si rincorrono sulla data della sua abdicazione. Capriccioso e dispettoso com’è, continua a non dirci quando se ne va, ma ci fa continuamente sapere quando non se ne va. L’idea di dedicare due parole alla fogna a cielo aperto di questa classe politica asservita a ghenghe di mafiosi, terroristi, assassini, rapinatori, trafficanti di droga e di armi, o all’ultima classifica di Transparency che premia l’Italia con la medaglia d’oro in Europa e in Occidente per la corruzione, non sfiora neppure il capo dello Stato. Che altro serve per invocare un decreto, i cui requisiti di necessità e urgenza sono evidenti in tutto il mondo fuorché al Quirinale e a Palazzo Chigi, copiato da uno a caso dei sistemi occidentali di lotta al malaffare? Che altro serve per raddoppiare le pene dei reati contro la Pubblica amministrazione, così da assicurare un bel po’ di galera a tutti colpevoli, e per radiare dal consorzio pubblico tutti i condannati per reati dolosi? O per bloccare la prescrizione dopo il rinvio a giudizio, come in tutto il resto dell’Occidente? O per importare dagli Usa il “test di integrità”, con agenti provocatori autorizzati a offrire soldi ai politici e ai pubblici amministratori appena eletti e ad accompagnare in cella chi li accetta? Forse attendono davvero Jack lo Squartatore, e non vedono che è fra noi da un pezzo.
Marco Travaglio
Il Fatto Quotidiano 07.12.2014