Il 9 novembre 1989 cadde il muro di Berlino, 25 anni dopo cadrà anche quello dell’euro.
di Wolfgang Münchau, editorialista del Financial Times, 9 novembre 2014
Se c’è una cosa su cui i responsabili della politica europea concordano, è che la sopravvivenza dell’euro non è più in dubbio. L’economia non va alla grande, ma almeno la crisi è finita.
Mi permetto di dissentire. I responsabili politici europei tendono a valutare il pericolo sulla base del numero di riunioni fino a tarda notte nell’edificio Justus Lipsius di Bruxelles. Di queste, ce ne sono sicuramente meno. Ma è un metro di giudizio sbagliato.
Non ho la più pallida idea di quale fosse la probabilità di una rottura dell’euro durante la crisi. Ma sono certo che la probabilità oggi è più alta. Due anni fa coloro che fanno le previsioni speravano in una forte ripresa economica. Ora sappiamo che non è avvenuta e che non sta per accadere. Due anni fa, l’eurozona non era preparata a una crisi finanziaria, ma almeno i responsabili politici hanno risposto creando dei meccanismi per affrontare questa grave minaccia.
Oggi l’eurozona non ha alcun meccanismo di autodifesa contro una depressione prolungata. E, a differenza di due anni fa, i responsabili politici non hanno nessuna intenzione di creare un meccanismo del genere.
Come spesso accade nella vita, la vera minaccia può non arrivare da dove la si aspetta – dai mercati obbligazionari. I principali protagonisti oggi non sono gli investitori internazionali, ma gli elettorati insurrezionali che con grande probabilità voteranno per una nuova generazione di leader e sono maggiormente disposti a sostenere dei movimenti indipendentisti regionali.
In Francia Marine Le Pen, la leader del Fronte Nazionale, potrebbe vincere un ballottaggio con il presidente François Hollande. Beppe Grillo, il leader del Movimento Cinque Stelle in Italia, è l’unica alternativa credibile a Matteo Renzi, il presidente del Consiglio in carica. Sia la Le Pen che Grillo vogliono che i loro paesi escano dall’eurozona. In Grecia, Alexis Tsipras e il suo partito Syriza sono in testa ai sondaggi. Così anche Podemos in Spagna, con il suo formidabile giovane leader Pablo Iglesias.
La domanda per gli elettori nei paesi colpiti dalla crisi è: a quale punto diventa razionale uscire dalla zona euro? Potrebbero concludere che non è ora; potrebbero opporsi a una rottura per motivi politici. Ma il loro giudizio è soggetto a cambiare nel tempo, e dubito che stia diventando più favorevole, con l’economia che affonda sempre più nella depressione.
A differenza di due anni fa, ora abbiamo le idee più chiare sulla risposta politica a lungo termine. L’austerità rimarrà. Le politiche fiscali continueranno ad essere restrittive, con gli Stati membri che dovranno obbedire alle nuove regole fiscali europee. Il “programma di stimoli” della Germania, annunciato la scorsa settimana, è quanto di meglio si potrà ottenere: lo 0,1% del PIL tedesco di spese addizionali, e non partirà prima del 2016. Godetevelo!
E la politica monetaria? Draghi ha detto che si aspetta di aumentare il bilancio della BCE di 1000 miliardi di euro. Il presidente della BCE non ha considerato questo numero un obiettivo esplicito, ma un’aspettativa – qualunque cosa ciò significhi. L’interpretazione più ottimistica è che ci sarà un piccolo QE con acquisto di titoli di stato. La visione più pessimistica è che non succederà nulla, e la BCE fallirà questo obiettivo così come sta fallendo il suo obiettivo di inflazione. Io mi aspetto che la BCE raggiungerà quell’obiettivo – e che questo non cambierà praticamente nulla.
E le riforme strutturali? Non dovremmo sovrastimare il loro effetto. Le riforme del lavoro e del welfare tedesco – così apprezzate – hanno reso la Germania più competitiva rispetto agli altri Stati dell’eurozona. Ma non hanno aumentato la domanda interna. Applicate all’intera eurozona, il loro effetto sarebbe trascurabile, visto che non è possibile per tutti diventare più competitivi gli uni rispetto agli altri nello stesso tempo.
Due mesi fa, Draghi ha suggerito che la zona euro punti in tre direzioni contemporaneamente – politiche monetarie più espansive, un aumento degli investimenti del settore pubblico e le riforme strutturali. L’ho definito l’equivalente economico di bombardamento a tappeto. La reazione sembra più l’equivalente economico della Carica dei Seicento.
Queste delusioni in serie non ci dicono con certezza che l’eurozona andrà in pezzi. Ma ci dicono che una “stagnazione secolare” è molto probabile. Per me, ciò costituisce il vero metro di misura del fallimento.
Wolfgang Münchau