L ’ ultima frontiera del serracchianismo – anomalia politica sorella del più popolare renzismo – è diversamente previtiana. È stato ieri di buon mattino ad Agorà, su Rai3, che Debora senz’acca Serracchiani ha inaugurato la difesa democratica del valoroso Donato Bruno, berlusconiano indagato per una consulenza plurimilionaria. “L’avviso di garanzia è a tutela dell’indagato”. Stop. Una difesa a mitraglietta, al solito, nonostante quella esse sibilante che a Napoli si chiama zeppola in bocca. Poi, paventando il peggio, si è congedata: “Scusate ma adesso devo andare via”. Un inedito per la pluriquarantenne governatrice del Friuli Venezia Giulia, nonché vicesegretaria del Pd, che sta a suo agio più in televisione che nella sua regione.
La Serracchiani previtiana è il frammento recentissimo di un film horror modello Shining. Solo che qui il mattino non ha l’oro in bocca ma il faccione da furbastro di Donato Bruno. La malattia del potere, che si chiama poterismo, è implacabile, riesce a deformare anche le parabole più impensabili. Cinque anni fa, la numero due renziana partì da una sponda completamente opposta al suo presente. Aveva trentotto anni, la Serracchiani, era la segretaria del circolo di Udine ed era il primo giorno di primavera del 2009. A Roma, il 21 marzo, il Pd radunò a Cinecittà i cosiddetti quadri locali, perlopiù giovani, laddove altri ragazzi cercavano una gloria diversa negli studi del Grande Fratello e di Amici. La Serracchiani parlò dodici minuti ed ebbe in tutto trentacinque ovazioni. L’allora segretario del Pd Dario Franceschini, stordito, chiese ai suoi collaboratori: “E questa da dove esce?”. Fu un incipit dalle due facce. L’inizio di tutto e l’inizio della fine.
SU YOUTUBE, il video del comizio di Debora senz’acca, a favore del biotestamento – “perché vengo dalla città che ha accolto Eluana Englaro” – fece boom e i giornali scavarono nella biografia di questa “sosia di Amélie che fa sognare i giovani del Pd”. Si scoprì che era romana di periferia, emigrata a Udine per amore del compagno. In Friuli Venezia Giulia, la scoperta del lavoro, da avvocato, e della politica, da liberale. Lo choc per la nomenklatura della vecchia ditta del Pd fu gigantesco. Al governo c’era il Caimano e sull’ispanico El País Miguel Mora vergò: “In due giorni è diventata la speranza di un’opposizione che cerca una voce nuova e unitaria. I più ottimisti la vedono come l’Obama del centrosinistra italiano”. Che anno quel 2009. Debora senz’acca Obama era il termine di paragone del nuovismo rottamatore. Pure per un rampante toscano di provincia che voleva diventare sindaco di Firenze. Scrisse Denis Verdini, sì proprio lui, il Marx del Partito unico renzusconiano, sul Foglio del 4 aprile 2009: “Da dove cominciamo? Ah sì, è vero, volevo buttar giù due riflessioncelle, qualcosa di serio insomma, sulla Debora Serracchiani dei lungarni , il fiorentino Matteo Renzi. Lo conosco bene, è un bravo ragazzo, nutrito a cacio e fave da un amorevole babbo a suo tempo leone della vecchia Dc”. Che anno quel 2009, davvero. Renzi vinse le primarie democrat e poi divenne sindaco. La Serracchiani volò a Strasburgo da eurodeputato e prese più preferenze di Berlusconi, 144mila circa. Lei precisò, da antiberlusconiana dura e pura: “Ho preso più voti di Papi, è vero”. Non solo. Per il Berlusconi a luci rosse “il Pd deve chiedere l’impeachment”. In campagna elettorale, sul suo blog, c’era un cesso virtuale dove buttare tutto quello che non si voleva più della politica. Per Debora senz’acca le priorità erano l’etica e la legalità, “in un partito che deve fare posto anche a Beppe Grillo”. Ma i sintomi della malattia, il poterismo, sotto forma di prudenza tattica e cooptazione, covavano a sua insaputa. Ed esplosero quando, sempre in quell’anno, Bersani si prese il Pd alle primarie. La base voleva Debora candidata ma lei si tirò indietro. In un’intervista disse che avrebbe scelto e sostenuto Franceschini, “perché è più simpatico”. La Serracchiani mancò l’occasione della sua vita (del resto è una Debora cui manca l’acca) e diventò franceschiniana. Da brividi. Da allora sul web per lei è un inferno e tutto cominciò a causa di quell’analisi così forbita, densa e dotta: “Voto Dario perché è più simpatico”. Il poterismo ha fatto piacere a Debora senz’acca non solo Donato Bruno ma lo stesso Renzi. “Matteo”, lei, non lo sopportava, e lui se ne doleva in decine di interviste. Alla fine lei è rimasta una numero due e lui è arrivato in cima. In questo il renzismo è differente dal serracchianismo. Nella segreteria c’era arrivata già con il traghettatore Epifani, dopo il disastro bersaniano del 2013. Oggi è vicesegretaria e ha un doppio ruolo come il Capo. Perché nel frattempo è diventata governatrice della sua regione adottiva. È anche lì il poterismo di Debora senz’acca sembra incurabile: contributi ad associazioni amiche, poltrone per i politici trombati, finanche un volo di Stato per andare a Ballarò. Dopo un lustro, la potenziale Obama con la frangetta è diventata previtiana.
di Fabrizio D’Esposito
Il Fatto Quotidiano 20.09.2014