Ragazzi, che spettacolo. Dopo vent’anni passati a ripetere la frottola della magistratura politicizzata e delle toghe rosse che colpiscono solo a destra e mai a sinistra, i berluscones e i loro house organ sono costretti a commentare la notizia che il padre del leader del centrosinistra è indagato per la bancarotta di una sua società. Oddio, che dire? Semplice: che le toghe, per quanto rosse, vogliono colpire il premier e segretario Pd perché è alleato di Berlusconi e con lui sta riformando la giustizia. Il Giornale: “Preso in ostaggio il papà di Renzi. Giustizia a orologeria”. Il Foglio: “Mozzorecchi all’arrembaggio: un vecchio fascicolo dissotterrato dopo le lunghe ferie” per “colpire un premier di sinistra” (sic) e per giunta “trentenne” (ri-sic) “attraverso il babbo”. Libero: “Babbo avvisato, Matteo sistemato. L’inchiesta sembrava destinata all’archiviazione. La svolta dopo l’offensiva del governo sulle ferie dei magistrati e la responsabilità civile. Solo una coincidenza? I precedenti di Mastella e Berlusconi autorizzano qualche dubbio”. A parte il fatto che l’inchiesta è iniziata 6 mesi fa dalla bancarotta della società e non da uno sfizio dei pm, e che la proroga è obbligatoria per legge, e che le indagini non sono mai sembrate destinate all’archiviazione (nessuno sapeva nemmeno che esistessero prima della richiesta di proroga notificata a Tiziano Renzi, non citofonata ai giornali), e che c’è una lieve contraddizione nell’accusare i magistrati di lavorare poco ma anche di lavorare troppo, resta da spiegare per quale misterioso motivo il Partito dei Giudici abbia indagato pure Nichi Vendola, leader di Sel, che non è alleato di B. e non sta riformando la giustizia. Da mesi Libero, come pure il Fatto, racconta giustamente la vicenda imbarazzante del pied à terre messo gratuitamente a disposizione dal banchiere Marco Carrai a Renzi quand’era sindaco di Firenze, e delle relative indagini della Procura: se queste dovessero approdare a qualcosa, Libero protesterebbe coi pm perché indagano su una notizia svelata anche da Libero? Siccome non c’è limite al ridicolo, il Fatto scopre che Donato Bruno, candidato del partito unico Forza Pd alla Consulta assieme al suo dioscuro Luciano Violante, è indagato a Isernia per appropriazione indebita e interesse privato su strane consulenze milionarie. Debora Serracchiani, neppure lontana parente della Debora Serracchiani che chiedeva trasparenza al Pd prima di diventarne vicesegretaria, fa spallucce e ripete la solita solfa sulla presunzione di non colpevolezza, come se questa obbligasse i partiti a mandare un inquisito alla Consulta.
“L’avviso di garanzia – dice la Serracchiani – serve all’indagato per poter far chiarezza”. Ora, qui non c’è alcun avviso di garanzia: c’è un’indagine sul sospetto che Bruno si sia intascato soldi pubblici non suoi. Se fosse in corsa per una municipalizzata, sarebbero affari di chi lo nomina, e se fosse in corsa per un ente locale sarebbero affari di chi lo candida e di chi lo vota. Ma Bruno è in corsa per la Consulta. Hanno una vaga idea, Serracchiani & C., di che cosa sia la Corte costituzionale? I suoi membri durano in carica 9 anni e in quel lunghissimo periodo godono della stessa immunità dei parlamentari, cioè non possono essere arrestati, né intercettati né perquisiti senza l’autorizzazione della Corte stessa. Infatti non s’è mai visto uno già indagato diventare giudice costituzionale. Anche perché – diversamente che per i parlamentari – la legge non prevede la decadenza neppure in caso di condanna. E se, Dio non voglia, Bruno fosse rinviato a giudizio, e magari condannato a pena detentiva, che ne sarebbe del massimo organo di garanzia costituzionale della Repubblica? Tutto accade perché Napolitano vuol piazzare alla Consulta, dopo il suo amichetto Amato, anche il suo amichetto Violante. E Violante può passare solo se ha i voti di Forza Italia. E Forza Italia lo vota solo se in cambio il Pd vota Bruno. Naturalmente se Renzi fa il bravo sulla giustizia (niente falso in bilancio e niente autoriciclaggio). Come direbbe il Sassaroli di Amici miei, è tutta una catena di affetti che né io né voi possiamo spezzare. A caval Donato non si guarda in bocca.
di Marco Travaglio
Il Fatto Quotidiano 20.09.2014