Ci siamo. Da ieri, la deflazione è realtà. Almeno in dieci città italiane: da Torino a Bari passando per Firenze e Roma, fino a Venezia. Il dato diffuso dall’Istat è doppiamente inquietante, perché certifica un salto all’indietro di circa mezzo secolo. Se, infatti, l’inflazione a luglio si è fermata a uno striminzito 0,1 per cento (dallo 0,3 di giugno) – scendendo così al livello più basso dall’agosto del 2009 – è dal 1959 che non si vedeva un anno di fila dell’indice dei prezzi al consumo sotto l’uno per cento. E dire che sarebbe stato comunque un dato ampiamente insufficiente.
Una percentuale così bassa del tasso di crescita della “peggiore delle tasse” è infatti una pessima notizia per l’economia, perché incide pesantemente sui salari, soprattutto quelli dei lavoratori dipendenti e sui risparmi delle famiglie, erodendoli nel tempo. In un’unione monetaria come quella dell’Eurozona, in caso di crisi non si può svalutare la moneta, e allora il riequilibrio deve avvenire toccando prezzi e salari che devono calare nei paesi in difficoltà (Italia, Spagna, Grecia etc…) rispetto a quelli in ripresa (come la Germania) per restare competitivi: è l’austerità. L’inflazione può rendere meno doloroso questo processo. Anche a livello europeo la stima di Eurostat ha mostrato una riduzione dell’inflazione dallo 0,4 per cento di luglio dallo 0,5 di giugno. Questo significa che, nonostante i tassi ormai prossimi allo zero, la Bce non riesce a rispettare il suo vero mandato: tenere l’inflazione poco sotto il due per cento. Come altre banche centrali, quella europea non sembra avere gli strumenti per indurre i prezzi a crescere. Ammesso che sia questo l’intento: i paesi nordici, in primis la Germania sono restii a interventi decisi sul fronte dei prezzi. Il motivo? L’inflazione favorisce i debitori (come l’Italia), a danno dei creditori (i tedeschi, appunto). Di certo, le pesanti iniezioni di liquidità (gli oltre mille miliardi delle operazioni Ltro) di dicembre 2011 e febbraio 2012 hanno permesso alle banche di acquistare in massa i titoli di Stato dei Paesi in difficoltà, ma non hanno avuto alcun effetto sull’inflazione. Il rischio deflazione per l’eurozona è concreto. In Italia lo è già per due motivi: il dato sulle grandi città è considerato dagli analisti un anticipatore del trend futuro, e la deflazione era già realtà per l’insieme di tutti i beni (-0,6% sul 2013). Interi comparti, infatti, mostrano ormai il segno meno. Quello alimentare, con un -0,7 per cento annuo registra il ribasso più forte da quasi dieci anni, mentre tutta la lista dei prodotti che vanno a finire nel carrello della spesa, dal cibo ai detersivi, tocca il minimo dal 1997.
NEPPURE il caro vacanza ha avuto effetto: voli e traghetti aumentano solo a confronto con giugno, mentre calano rispetto all’estate scorsa. Secondo l’economista Alberto Quadrio Curzio, un’ulteriore calo ad Agosto appare scontato: la colpa è della “politica economica restrittiva” di Bruxelles, che “sta portando l’Ue stessa – ha spiegato ieri all’Ansa – in deflazione e recessione, che potrebbe configurare una sindrome giapponese”. Una stagnazione dei prezzi che deprime gli investimenti, perché le aziende, incassando meno, hanno meno liquidità: l’effetto sull’occupazione è sotto gli occhi di tutti. Nell’Ue, cinque Paesi su 18 – Slovacchia, Portogallo, Grecia, Cipro e Spagna – sono già scivolati in deflazione. L’Italia ci sta arrivando.
Cdf