L’Italia è un corpo immobile adagiato sul letto della politica. Siamo prossimi alle piaghe da decubito. La politica non solo è responsabile dell’assurdità delle sue scelte, basti pensare al Mose di Venezia o al Tav piemontese, ma è colpevole della mestizia in cui sono caduti gli italiani. In una situazione di bonaccia sociale le ferite intime diventano più grandi. Mettiamo il nostro microscopio sull’amore che non arriva, sulle delusioni che ci danno gli amici. In una situazione di fervore sociale siamo più clementi, non indugiamo sui difetti di chi ci sta vicino.
Paradossalmente si potrebbe dire che la politica è responsabile anche delle ormai dilaganti crisi matrimoniali e perfino della crisi della letteratura. Gli italiani sono abbattuti e in questi giorni di poca luce la cosa è ancora più evidente. Il prossimo congresso del più importante partito è una faccenda per addetti ai lavori. Anche se moltissimi sono andati a votare alle primarie, pare evidente che non ci sono emozioni in campo, ma solo un riposizionamento delle truppe.
In un contesto del genere, pare assurda la permanenza del governo e perfino la sua crisi e le conseguenti elezioni. La politica ha istituzionalizzato lo stallo. E se vuoi cambiare qualcosa nella tua vita devi lasciare tua moglie o tuo marito, devi drogarti, devi farti un amante, insomma devi agire sul tuo corpo, perché il corpo sociale è immune da ogni intervento. La società è una mummia chiusa in uno scantinato. Sulla ribalta ci sono vicende individuali. La politica è un incrocio di rancori personali, l’antipatia al posto del disegno, il capriccio al posto della prospettiva. Con o senza Berlusconi sembriamo condannati ancora per molto a questo processo in cui rischiamo di diventare tutti quanti imbalsamatori professionisti. Come se ognuno non potesse che dare il suo contributo alla proliferazione dello sconforto, alla manutenzione dello sfinimento.Dispiace molto che gli scrittori, gli intellettuali, gli artisti, gli studenti, non riescano a smuovere il corpo inerte della Nazione. Dispiace molto vedere come tante persone di valore sono paralizzate nelle loro vicende private. Come si fa a non vedere che il mondo delle merci è un mondo morto? Come si fa a non vedere che il modello della crescita può risolvere qualche esistenza singola ma è un suicidio per la specie?
In giro ci sono più risposte che domande. È una società densamente popolata di segni. Tutti si sentono in dovere di rispondere a domande che nessuno ha mai fatto. E allora è un delirio in cui la politica non è più politica e l’arte non è più arte e l’amore non è più amore. Tutto sbiadisce in un vortice in cui le fatiche di un giorno non hanno tracce nel giorno successivo. Forse solo la morte conserva ancora una qualche consistenza, ma ancora per poco. Arriveremo a sentire l’effimero anche ai funerali. E l’esistenza degli umani diventerà sempre più simile alla non esistenza, perché priva di quell’orma di sacralità che impedisce alla vita di trasformarsi in una sequenza di atti senza senso.
La politica non può da sola ridare vigore ai mammiferi italici, ma è certo che negli ultimi anni si è molto adoperata per deprimerli. Per ridare speranza ci vogliono gesti netti, coraggiosi e inequivocabili. E ci vuole un disegno che non sia calibrato sulle esigenze di giornata. In un’ottica del genere, per esempio, non avremo mai politiche decenti per i paesi e per le montagne. Che senso ha togliere la tassa sulla casa e non preoccuparsi che la gran parte delle case dei paesi e delle montagne è chiusa o aperta solo per pochi giorni all’anno?
Il Fatto Quotidiano 10.12.2013