Costano troppo. Non raggiungono gli obiettivi. E trattano i migranti in modo indegno. I tecnici della Presidenza del Consiglio, le associazioni per i diritti umani e le università concordano: i centri di identificazione ed esplusione vanno chiusi.
Questione di sopravvivenza. I problemi dovuti agli incendi non sono stati però l’unico motivo che hanno portato il Cie del capoluogo emiliano a chiudere i battenti. C’erano anche i contenziosi con la cooperativa che a novembre si era aggiudicata l’appalto per la gestione di quei cinquanta posti, “l’Oasi”, attiva in molte altre strutture d’accoglienza. «Abbiamo dovuto revocare la convenzione», spiega il vicecapo di gabinetto Bianca Lubreto: «Il nostro funzionario aveva segnalato diverse inadempienze a cui la società non rispondeva». Non proprio fattori da niente: si va dal personale non pagato (la stessa prefettura è dovuta intervenire per garantire gli stipendi), alla mediazione psicologica e linguistica non sufficiente, fino alla mancanza dei materiali necessari per ogni ospite, come lenzuola, assorbenti e biancheria.
Il livello dei servizi, già critico, è crollato dopo l’ultima riforma. Il ministero ha imposto infatti l’anno scorso che tutte le convenzioni per assegnare a onlus e associazioni la gestione dei Cie partissero da una base d’asta di 30 euro a persona, al giorno, e venissero selezionate non per la qualità della proposta, ma solo secondo lo sconto maggiore. «Tutti gli operatori ci hanno confermato che è impossibile garantire standard decenti a queste condizioni», sostiene Barbieri. E lo dimostra il fatto che a Bologna, ad esempio, all’ultima gara si siano presentate solo due società: l’Oasi, appunto, e Misericordie. A Lamezia Terme il bando è stato proprio disertato: non si è fatto avanti nessuno per assumersi la responsabilità dei suoi 80 posti.
Efficacia mancata. Ad aprile la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ha pubblicato un rapporto dettagliato, dedicato ai costi di queste strutture. Il risultato mostrava l’aperta contraddizione del modello: spese elevate per lo Stato ed efficacia quasi assente. Degli ottomila migranti catturati e rimasti per mesi dietro le grate nel 2012, infatti, solo la metà sono stati espulsi. E parliamo sempre di una briciola in un mare molto più ampio: secondo le ultime stime della Caritas in Italia sarebbero presenti 326mila irregolari. Quaranta volte tanto quelli che sono passati da un Cie.
«Noi siamo riusciti a stimare solo le spese per il vitto e l’alloggio», spiega Alberto di Martino, il professore che ha coordinato la ricerca: «Ed è stato un lavoro massacrante: avere informazioni sulle convenzioni, gli standard, i regolamenti interni è praticamente impossibile. I dati vengono ritenuti “sensibili” per motivi di sicurezza». In questo modo è difficile fare un controllo puntuale sulle inefficienze: «Le notizie che arrivano all’esterno sono arbitrarie», rincara la dose Di Martino: «Di fatto i Cie sono completamente fuori dal circuito democratico», tanto che da tempo lo stesso professore ne proclama l’evidente incostituzionalità.
Se l’università di Pisa ha scandagliato i costi delle gestioni, la Corte dei Conti ha fatto lo stesso per il peso che il controllo dei Cie ha sulle casse dei ministeri dell’Interno e della Difesa. Ne è venuto fuori che nel 2012 lungo i muri dei centri per immigrati, compresi quelli dedicati ai richiedenti asilo, hanno camminato 1045 militari e 496 uomini delle forze di polizia. Una presenza costante, come quella delle proteste: dalla rivolta a Gorizia in agosto, durante la quale un ragazzo è finito in coma, a quella di Modena a luglio, alle continue manifestazioni di insofferenza dei rinchiusi a Ponte Galeria a Roma, non c’è mese in cui non brucino materassi o coperte per denunciare le condizioni di vita in questi bunker.
Salute negata. Che i migranti abbiano ragione a ribellarsi non lo dicono solo i giudici del tribunale di Crotone, che nel dicembre scorso avevano assolto per “legittima difesa” tre ragazzi nordafricani che avevano partecipato alle proteste nel Cie di Sant’Anna. Sembrano suggerirlo oggi anche gli esperti del Comitato nazionale per la Bioetica , in un parere sottoposto pochi giorni fa alla Presidenza del Consiglio dei ministri. «I centri sono ubicati in contenitori impropri, fortemente carenti dal punto di vista igienico», scrive il team guidato dalla professoressa Grazia Zuffa: «Vi sono concentrati soggetti di diversa ed eterogenea provenienza, molti di loro particolarmente vulnerabili». Persone a cui non viene garantito nemmeno uno standard minimo per la propria salute: «Da quando il periodo di detenzione è stato prolungato a sei mesi, l’assistenza sanitaria risulta del tutto insufficiente e si registrano casi gravi di soggetti non curati a dovere». Andrebbero chiusi, dicono i tecnici. Oppure aperti, per lo meno, a un completo controllo da parte delle istituzioni.
di Francesca Sironi
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