Il governo esulta per i dati Istat sugli occupati di agosto (+69 mila), ma sono quasi tutti a tempo determinato. Quelli che la riforma doveva debellare. E va così da mesi.
Il primo dato certo è che l’occupazione cresce. L’altro è che a farlo è quasi solamente quella precaria,cioè i contratti a tempo determinato che il Jobs Act e i generosi incentivi del governo dovevano debellare. Il lavoro autonomo è invece al palo. Man mano che arrivano i dati sul lavoro,emerge un elemento inquietante che dice molto sulla percezione della ripresa in atto, e che dovrebbe preoccupare a prescindere dalla girandola di sfottò, “ciao gufi” ed euforie varie che l’esecutivo compie sui numeri ormai da mesi.
“I dati sono molto buoni. La disoccupazione era al 46%, i dati sono in discesa. Si può fare meglio, l’elemento chiave è che il Jobs act funziona. Nel giro di un anno ci sono 325mila persone che lavorano in più. Dobbiamo essere soddisfatti”, ha spiegato ieri il premier Matteo Renzi al Tg3, al termine di una giornata aperta dal comunicato Istat sulle forze di lavoro ad agosto. Nell’ultimo mese estivo sono stati creati 69mila nuovi posti di lavoro – da inizio anno sono 325mila – con il tasso di occupazione che risale al 56,5%, lo 0,2 in più del mese precedente e lo 0,9 su base annua, mentre il tasso di disoccupazione scende all’11,9%, minimo da due anni. Gli inattivi – chi non ha un’occupazione e non la sta cercando – 15-64 anni calano di 86 mila unità.
LE BUONE notizie per il governo, però, finiscono qui. A leggerli, quei dati dicono molto di più.I nuovi occupati sono quasi tutti dipendenti (gli autonomi calano di mille unità), e di questi quelli “a termine”, cioè precari con un contratto a tempo determinato sono 45 mila (+1,9%), e quelli stabili 25 mila (+0,2). Allargando lo sguardo al trimestre appena trascorso, l’incremento dei contratti a termine è ancora più marcato: a giugno-agosto, rispetto a quello marzo-maggio, su 107 mila nuovi posti dipendenti creati,quelli a termine sono pari a 94 mila: “l’88% del totale”, spiega l’Istat, il 4,1% in più. Su dieci impieghi creati, nove sono precari.
L’aspetto critico è che non è un fulmine a ciel sereno, ma una tendenza in corso da diversi mesi, riassunta dall’Istat in un prospetto (lo vedete nel grafico sopra) che disegna una parabola discendente dei contratti a tempo indeterminato. Il piccolo “boom” di questi ultimi è partito a gennaio – insieme agli sgravi contributivi (fino a 8.060 euro l’anno per tre anni) per le aziende che nel 2015 assumono con contratti a tempo indeterminato – ed è proseguito fino a febbraio-aprile (il contratto a tutele crescenti, cioè senza l’articolo 18, cuore pulsante del Jobs act, è partito il 7 marzo), per poi iniziare a calare vistosamente fino ad avvicinarsi allo zero nell’ultimo trimestre. Eppure, la decontribuzione e le non molte mensilità di retribuzione stabilite come indennizzo per chi licenzia rendono, almeno per il 2015, più conveniente assumere con contratti a tempo indeterminato rispetto a quelli a tempo determinato, anche se il licenziamento dovesse avvenire a ridosso del limite massimo (tre anni) stabilito per questi ultimi. Perché le aziende continuano a offrire impieghi precari? Una lettura è offerta dall’aumento costante del lavoro “in somministrazione” (+21% ad agosto), i lavoratori forniti dalle agenzie interinali, a cui le aziende fanno ricorso sia per avere più libertà (ma il Jobs act già gliela offre, e a costi bassi) sia perché non sono sicuri di poterli tenere. Le aziende non si fidano della lieve ripresa in atto. Un problema per il governo, che nella legge di stabilità dovrà decidere se ecome confermare gli sgravi per il prossimo anno.
QUESTI – ha stimato l’esecutivo – costeranno 11,7 miliardi nel 2015-2018, solo 6,7 dei quali coperti davvero. Per il 2015 si parla di 1,8 miliardi, ma le stime – circa un milione di contratti beneficiari – sono già superate dai numeri dell’Inps, secondo cui a luglio erano 786.912. Se continua così a fine anno lo sfondamento sarà almeno di 3 miliardi. Il governo ne è al corrente, e studia di confermarli solo per il Sud e le donne. Una volta chiarito, ci potrà essere un boom negli ultimi mesi per accaparrarsi gli incentivi, che aumenterà il buco, ma la percezione che non sono strutturali ne vanificherà l’effetto. Il problema più grave, però, è che i dati mostrano che questo sta già avvenendo.
Dulcis in fundo, la disoccupazione giovanile è arrivata al 40,7%. Ieri prima dell’uscita del premier, il presidente della Conferenza episcopale italiana Angelo Bagnasco l’ha messa così: “Gli esperti ripetono che i segnali positivi sono cominciati; nell’agone politico, però, le informazioni e i dati si rincorrono e non di rado si contraddicono. Non giova a restituire fiducia. E’ soprattutto l’economia reale che deve fornire dati certi e concreti”.
Carlo Di Foggia
Il Fatto Quotidiano 01.10.2015