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Lo chiamavano Impunità

impunita1Ci sono un aspetto grottesco e uno serio, nella denuncia sporta ieri da Vincenzo De Luca contro Rosy Bindi “per diffamazione, attentato ai diritti politici costituzionali e abuso d’ufficio” presso la Questura di Salerno situata – come sottolinea il sindaco decaduto e neogovernatore de- cadente – “in piazza Giovanni Amendola (martire della libertà)”. L’aspetto grottesco è nel fatto che un condannato in primo grado per abuso d’ufficio e per diffamazione, nonché imputato in altri processi con accuse anche più gravi, si paragoni ad Amendola e denunci la presidente della commissione parlamentare Antimafia, incensurata e mai indagata in vita sua, accusandola di entrambi i suoi stessi reati, solo perché ha riepilogato il suo curriculum giudiziario. Come uno che si fa un selfie con l’iPhone, scopre di avere la faccia da culo e corre a denunciare la Apple.

L’aspetto serio è che mai, prima d’ora, un presidente dell’Antimafia era stato denunciato per un atto compiuto nell’esercizio delle sue funzioni, per giunta da un esponente di spicco del suo stesso partito, per soprammercato dal partito che – a torto o a ragione – è erede di due tradizioni politiche che alla mafia hanno pagato un pesantissimo tributo di sangue: la comunista (con Pio La Torre e tanti sindaci e sindacalisti) e la cattolico-democratica (con Piersanti Mattarella e tanti altri).

L’altro giorno, quando la Bindi lesse l’elenco dei 16 impresentabili nelle liste delle bindiRegionali e De Luca annunciò querela, Renzi se la cavò con un pilatesco “Se la vedranno fra loro in tribunale”. Ma ora qualcosa deve dire. Come presidente del Consiglio e come segretario del Pd. Il governo e il Pd da che parte stanno? Da quella della commissione parlamentare che, fin dai primi anni 60, ha il compito istituzionale di investigare sui rapporti fra mafia e politica e dal 2007 si è data un Codice etico votato da tutti i partiti, ribadito nel settembre 2014, che li impegna a non candidare membri di giunte sciolte per mafia, soggetti sottoposti a misure di prevenzione e personaggi rinviati a giudizio per mafia, traffico di droga e di rifiuti, delitti contro la Pubblica amministrazione, estorsione, usura e riciclaggio? O da quella di un gerarchetto locale che ha più processi che capelli in testa, che si candida a cariche che non può ricoprire in spregio alle leggi dello Stato e non perde occasione di vantarsi dei suoi capi d’imputazione e persino delle sue condanne (“chi non ha almeno un abuso d’ufficio è una chiavica”)? Le chiacchiere stanno a zero: o di qua o di là. O ha ragione De Luca, e allora il Pd deve espellere la Bindi e chiederne le dimissioni dall’Antimafia.

renzi-de-luca-71Oppure ha ragione la Bindi, e allora dev’essere cacciato De Luca: non solo dalla Regione (per la legge Severino), ma anche dal partito. Questa non è una bega di ballatoio o uno “scontro”, come oggi titoleranno i giornali paraculi per non chiamare col loro nome l’aggressore e l’aggredita: è un conflitto istituzionale ai massimi livelli fra chi rispetta la legge e chi la calpesta. De Luca, avendo fatto pure il parlamentare, sa benissimo che la sua denuncia finirà nel nulla, per un fatto sia di regole sia di merito.
L’art. 68 della Costituzione dice che “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”. È l’unica forma di immunità parlamentare legittima e doverosa, quando davvero l’eletto parla nella sede e nell’esercizio delle sue funzioni, come ha fatto la Bindi venerdì elencando i candidati in conflitto con il Codice etico dell’Antimafia. Il merito dice che la presenza di De Luca nell’elenco era scontata e doverosa, essendo stato rinviato a giudizio per due reati contro la Pubblica amministrazione (concussione e truffa): la Bindi avrebbe commesso reato di abuso d’ufficio escludendolo, non certo inserendolo.

L’attentato ai suoi diritti politici costituzionali è una barzelletta: De Luca non aveva alcun diritto di candidarsi a governatore della Campania, sia per il Codice etico dell’Antimafia che esclude dalle liste gli imputati per reati come i suoi, sia per la legge Severino che impone la sua decadenza appena poggerà le terga sulla poltrona più alta della Regione. È semmai De Luca che ha violato i diritti costituzionali degli altri candidati e anche degli elettori campani, chiedendo e prendendo voti per un incarico che mai potrà svolgere. Quanto infine alla diffamazione, è un reato impossibile: la Bindi non ha fatto altro che fotografare il processo Ideal Standard che vede De Luca imputato per quei due reati. Quindi: il processo non si farà mai, per via dell’insindacabilità della Bindi; ma, anche se si celebrasse, con la tragicomica sfilata dei commissari dell’Antimafia interrogati sui poteri della commissione, finirebbe in un’assoluzione certa, perché la Bindi non può aver commesso nessuno dei tre delitti indicati nella denuncia.

Perché allora De Luca s’è avventurato in una lite tanto temeraria? Per affermare un principio malato, di chiaro stampo berlusconiano: le leggi valgono per gli altri, non per lui; chi viene eletto è al di sopra della legge e della Costituzione; le urne sono un lavacro che sana ogni illegalità, amministrativa e anche penale, come il medievale “giudizio di Dio”. Dunque – sottinteso – l’Antimafia avrebbe dovuto pubblicizzare tutti gli impresentabili tranne De Luca, che ha imputazioni più gravi di altri, ma è intoccabile in quanto unto del Signore. È su questi principi che il premier-segretario deve esprimersi, e alla svelta. Se non lo farà, saremo autorizzati a dedurne che in Italia non solo Berlusconi si ritiene al di sopra della legge: ma anche il governo e il Pd. Che a questo punto potrebbe anche cambiare nome in Pdl:
Partito De Luca.
Ps. Se poi il presidente Mattarella volesse eccezionalmente dire due parole anche lui…

Marco Travaglio
Il Fatto Quotidiano 03.06.2015

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