L’operazione “Addio al posto fisso” sbarca nelle università, e stavolta è per uccidere: sepolto nel bel mezzo della legge di stabilità c’è un comma micidiale, il 29esimo dell’articolo 28. Sono solo due righe, che aboliscono due parole di un decreto del 2012: ma la conseguenza è quella di vaporizzare le speranze di migliaia di ricercatori precari di un futuro a tempo indeterminato, e di rendere possibile un mutamento epocale dell’assetto degli atenei.
Come possa avvenire tutto ciò semplicemente abolendo due parole è presto detto. Attualmente, il numero e il tipo di docenti di ciascun ateneo è determinato in base ai “punti organico” assegnatigli dal Miur. Un ordinario “costa” 1 punto organico, un associato 0,7, un ricercatore tipico 0,5. Quando un docente va in pensione, i punti organico corrispondenti tornano al dipartimento di appartenenza (dal 2008 pesantemente decurtati, causa blocco turnover), che decide come reinvestirli.
Le promozioni costano quindi dei preziosi punti organico, ma se a vincere è un interno si paga solo la differenza: quindi, in tempi di turnover normale, quando andava in pensione un ordinario si ammazzava il vitello grasso. Con il suo punto organico si poteva assumere un nuovo ricercatore, far transitare un ricercatore ad associato e un associato ad ordinario, e in media avveniva proprio così.
Negli ultimi anni, però, questo sistema si è vaporizzato. I docenti strutturati nelle università sono crollati verticalmente: da 60.000 a 50.000 in sei anni, praticamente turnover zero. Infatti, non solo il 50%-80% dei punti organico da pensionamenti è svanito nel calderone del “risanamento”, ma i ricercatori nuovi assunti, “grazie” alla legge Gelmini del 2010, sono anche loro a tempo determinato.
Ne esistono due specie: il tapino (“lettera a)”) costa 0,5 punti, dura fino a cinque anni non rinnovabili al termine dei quali il mezzo punto torna al dipartimento; il deluxe (“lettera b)”) invece è una sorta di tenure track: costa 0,7 punti che dopo tre anni, di norma, vengono convertiti stabilmente in un posto da professore associato e quindi non più disponibili fino alla pensione.
In genere nei dipartimenti la spartizione dei punti organico avviene più o meno come nella savana: il leone mangia per primo, poi le leonesse, poi le iene (absit iniura verbis) giù fino alle formiche… il punto organico è come il maiale, non si butta via niente! In questa spartizione i precari non sono propriamente i leoni: lo si può toccare con mano guardando la proporzione attualmente in servizio, più di 2000 tapini contro soli 200 deluxe. Una proporzione che ricorda fastidiosamente la decimazione.
Questo sistema appare ovviamente una follia: come è possibile che a decidere se assumere o promuovere siano proprio quelli che non vedono l’ora di essere promossi, dopo anni e anni di blocco stipendiale e di carriera? E’ come dare ad un naufrago dell’Isola dei Famosi un pasticcino dopo giorni di pesce crudo: facile prevedere che lo ingoierebbe in un millisecondo, altro che spartizioni. Anche al Miur devono averci pensato, e per una volta ne hanno fatta una giusta: così nel 2012 hanno decretato che, per ogni posto da ordinario, si è obbligati a bandire anche un posto per ricercatore deluxe, per garantire almeno un minimo di assunzioni a tempo indeterminato.
Ed eccola qui, la magia di Renzi: è proprio da questo decreto del 2012 che toglie “lettera b)” e abbatte l’unico baluardo. Se il comma verrà approvato, ogni volta che si bandirà un posto da ordinario, per essere in regola basterà assumere un tapino a scadenza breve. La scelta sarà quindi: giocarsi 0,7 punti per sempre, o investire 0,5 punti organico che torneranno indietro tra 3-5 anni, pronti per essere reinvestiti? Ovviamente, non si accettano scommesse.
La speranza per scampare a questa mannaia è poca, e tutta nelle mani degli attuali precari: ad esempio, se smettessero di lavorare per una settimana mostrerebbero a tutti (anche a loro stessi!) quanto sono fondamentali… ma ovviamente non è così facile. Di certo qualcosa andrebbe fatto: questo comma sarebbe un passo decisivo per importare in Italia l’aspetto più deteriore del modello universitario americano, ovvero l’elevatissima mole di lavoro svolto a contratto. Negli Usa quasi il 60% del personale didattico è composto da precari (la maggioranza di essi part-time) e deve guadagnarsi il rinnovo del contratto ogni anno fino alla vecchiaia; una piccola élite di strutturati gestisce il loro lavoro con il vantaggio permanente del ricatto.
Uno scenario che è il sogno inconfessato di dominio totale che il baroname doc coltiva da anni, anche piuttosto apertamente. Finalmente si comincia a toccare con mano la logica dietro le ultime pressanti richieste dei rettori a Renzi per “più autonomia agli atenei”… richieste peraltro condivise in buona fede da molti, che però evidentemente non hanno capito come tale autonomia verrà gestita, e soprattutto da chi.
Di fronte a questo scenario, sarebbe quindi auspicabile una presa di coscienza e di parola da parte della “minoranza consapevole” di docenti che rifiutano un simile modello di università: docenti che si esprimono pubblicamente, che prendono la parola nei dipartimenti, che chiedono ai direttori di rifiutarsi di avvalersi del comma assassino nei loro atenei.
Ci sono situazioni in cui la soluzione ad un grande problema è alla portata di alcuni… la speranza è che la gravità del problema venga colta, insieme all’importanza di dare un qualche segnale. Se invece l’università si chiuderà invece ancor più su se stessa, sarà difficile immaginare di chiamare chicchessia in sua difesa quando Renzi (o chi per lui) deciderà che è giunta l’ora della mazza ferrata.
di Alessandro Ferretti
Il Fatto Quotidiano 28.10.2014