IL CONTO LO PAGANO COMUNI E REGIONI, GIÀ SACCHEGGIATI NEGLI ANNI SCORSI TRADOTTO: MENO SERVIZI E RISCHIO NUOVE TASSE LOCALI. PADOAN: “È POSSIBILE”.
Alla fine, di riffa e di raffa, la manovra vale 36 miliardi. Certo le coperture sono un po’ strutturali, un po’ una tantum (la vendita delle frequenze, riprogrammazione di fondi europei), un po’ farlocche (3,8 miliardi da trucchetti fiscali chiamati “gigantesca lotta all’evasione”), ma quando il Consiglio dei ministri finisce Matteo Renzi è felice. Ogni misura che illustra è un metaforico gesto dell’ombrello a chi non gli credeva: “Diciotto miliardi è la più grande riduzione di tasse mai fatta da un governo nella storia della Repubblica”, gongola , “tagliare le tasse è di sinistra”, anzi no “da persone normali” visto il livello “pazzesco” della pressione fiscale. Riassumendo, anche se lui non lo sa, la sua è una manovra tutta giocata sul lato dell’offerta: peccato che questa sia una crisi di domanda. Lo sintetizza perfettamente lo stesso premier in conferenza stampa, quando si rivolge al mondo delle imprese: “Caro imprenditore, assumi a tempo indeterminato? Ti tolgo l’articolo 18, i contributi e la componente lavoro dall’Irap. Mamma mia, cosa vuoi di più?”. Meno diritti e meno welfare in cambio di un po’ d’occupazione ricattabile: gran cambiamento di verso. Va detto che Confindustria e soci hanno festeggiato i 6,5 miliardi di euro di minor Irap (che si uniscono alla conferma strutturale degli 80 euro di Irpef) annunciati dal governo, ma forse dovrebbero stare più attenti e controllare il loro portafoglio ordini: se è pieno di fatture in lingua straniera fanno bene, ma se vendono soprattutto in Italia non hanno capito cosa sta succedendo.
MANOVRA RECESSIVA. Tutti dicono che la legge di stabilità di Matteo Renzi è “espansiva”, lui la definisce “seria”. Non è né l’una né l’altra cosa. Oltre la metà delle coperture vere sono infatti tagli di spesa: 6,1 miliardi sono “risparmi dello Stato”, dice Renzi, formula non chiara che dovrebbe contenere tanto le sforbiciate ai ministeri che il risparmio dovuto ai minori interessi sul debito pubblico. Il resto è più o meno tutto in carico a regioni, province e comuni: otto miliardi o giù di lì. L’altra grossa posta, cioè circa 11 miliardi, è lo spazio che il governo si è concesso aumentando il deficit dal 2,2% tendenziale sul Pil al 2,9%. A parte che l’Italia sforerà il 3% – scelta legittima – ma senza avere il coraggio di dirlo e fare su questo una battaglia a viso aperto, la maggior parte della manovra si basa su tagli (ma non manca qualche tassa, tipo quella sui fondi pensione a cui i lavoratori hanno devoluto il Tfr): applicando qualunque forma di moltiplicatore fiscale (all’ingrosso l’effetto sulla ricchezza delle misure) se ne deduce che questa manovra è recessiva, cioè comprimerà comunque il Pil (certo, nulla a confronto coi fasti di Mario Monti). I tagli di tasse, infatti, non hanno l’effetto espansivo della domanda diretta dello Stato (che opportunamente calibrata, peraltro, peggiora meno della spesa privata la bilancia commerciale). Il ministro Pier Carlo Padoan però, beato lui, è uomo fiducioso e prevede un andamento crescente del Pil “nel medio periodo”, cioè tra qualche anno, a patto di arrivarci vivi.
PAGANO COMUNI E REGIONI e quindi i cittadini. Questa la sostanza. Il sindaco d’Italia il conto lo ha presentato agli enti locali, già fiaccati da sforbiciate che nelle innumerevoli manovre degli ultimi tre anni ammontano già a una quarantina di miliardi. Chiunque pensi che dopo questa cura sia possibile, in pochi mesi e senza alcun lavoro di effettiva revisione della spesa, tagliare solo eliminando gli sprechi e non toccando i servizi è nella migliore delle ipotesi un illuso. Oppure è Renzi. Questi tagli significano meno posti negli asilo, più buche per le strade, meno assistenza per gli indigenti e gli anziani, spesa sanitaria ancora in contrazione, zero investimenti. Ovviamente non di soli tagli dei servizi vivono sindaci e governatori in difficoltà: possono sempre aumentare le tasse, vale a dire le addizionali Irpef e tante altre cosette. “Non so se lo faranno – ha ammesso il ministro Padoan – Certo ne hanno la possibilità”. Renzi, invece, preferisce buttarla sul merito: quelli bravi tagliano, quelli cattivi tassano e i cittadini li puniscono nelle urne. “È il federalismo fiscale”, gli fa eco il ministro. Sarà. La cosa curiosa però è che il governo si è preoccupato di spostare il pareggio di bilancio al 2017 per lo Stato, ma quello degli enti locali scatta ancora a gennaio 2015: significa sei miliardi di tagli diretti, cui va aggiunta la quota degli enti locali dei tagli agli acquisti di beni e servizi (un altro paio di miliardi). Come contentino, i comuni che hanno i soldi in cassa potranno sforare il Patto per fare investimenti: la copertura è un miliardo in tutto. In questo modo, parecchi enti locali rischiano il dissesto. Non lo dice solo Il Fatto Quotidiano, ma persino due parlamentari del Pd. uno renziano, Matteo Richetti, uno in rapporti altalenanti col premier, Francesco Boccia: “Il pareggio di bilancio per gli enti locali deve seguire le regole del governo nazionale: un anticipo al 2015 solo per gli enti locali non sarebbe sostenibile e molte amministrazioni rischierebbero il dissesto”. Così, per dire.
di Marco Palombi
Il Fatto Quotidiano 16.10.2014