Il 21 marzo 2009 la pallosa e sonnacchiosa assemblea nazionale dei Circoli del Pd viene improvvisamente scossa da un piccolo tsunami: una giovane minuta e timida, che non riesce neppure a dare del tu al segretario Franceschini, conquista la platea con un intervento iniziato fra il distratto brusio generale che ben presto ruba l’attenzione di tutti e cambia le facce dei brontosauri pidini: dai sorrisetti di superiorità di fronte a una ragazzina impertinente alle smorfie sempre più nervose e imbarazzate per la sfrontata freschezza che processa le ambiguità, le doppiezze e gli inciuci del partito neonato, anzi mai nato: 12 minuti interrotti da 35 standing ovation, centinaia di migliaia di visualizzazioni su Youtube. Quella ragazza, che pare anche più giovane dei suoi 39 anni, è Debora Serracchiani, avvocato e segretario del Pd a Udine, “la città lontana che ha accolto Eluana Englaro”. Dice basta ai compromessi con B. che “hanno costretto molti nostri elettori a votare Di Pietro per disperazione, perché gli abbiamo fatto fare da solo l’opposizione su temi che ci appartengono, come il conflitto d’interessi e la questione morale”. Invoca una legge sul testamento biologico contro le resistenze interne sui diritti civili e la laicità: “La Costituzione è chiara, basta quella”. Chiede che le candidature non calassero dall’alto, ma salissero dalla base. Dice che “non possiamo non tassare i ricchi solo perché sono troppo pochi”. Da allora, per un bel po’, la Serracchiani non sbaglia una mossa. Candidata al Parlamento europeo, è eletta in Friuli con più preferenze di B. Quando Grillo si candida alle primarie per la segreteria Pd, anziché scomunicarlo tenta di dialogare: “Caro Beppe, quando parli di Pdmenoelle tu hai in mente i vertici e quello che hanno fatto. Quando io penso al Pd, penso alla base, al partito che possiamo costruire. Stiamo lavorando per uno stesso obiettivo, solo che lo facciamo con modalità differenti. Concedimi il beneficio del dubbio. Non ti chiedo tanto: solo di lasciarmi provare. Magari insieme e ognuno a modo suo ce la facciamo”. Nel 2011 chiede le dimissioni del senatore Alberto Tedesco, indagato a Bari. Nel 2012, pur avendo sostenuto i primi passi di Renzi, lo critica duramente per la sfida a Bersani alla segreteria: “Meglio se resta sindaco di Firenze”. Nel 2013 è eletta governatore del Friuli dopo una campagna elettorale tutta incentrata sulle “liste pulite”: fuori gl’inquisiti e dimissioni in bianco dei candidati per poter estromettere gli eventuali indagati: “Per le persone che mi appoggiano io non voglio avvisi di garanzia: tecnicamente si può sapere se una persona è sotto indagine”. E quando alcuni neoeletti finiscono sotto inchiesta per i soliti rimborsi regionali, chiede “un passo indietro”: “È un richiamo alle forze politiche, alla responsabilità e all’onestà, e su questo non voglio assolutamente arretrare: sono valori non negoziabili”. Poi non succede niente e gli inquisiti restano al loro posto. Intanto la Serracchiani è tornata con Renzi, che l’ha promossa vicesegretario. Ma è già un’altra Serracchiani. Minaccia con piglio da kapò il presidente del Senato Grasso che osa contestare la controriforma costituzionale (“si ricordi chi l’ha fatto eleggere”) e chiunque dissenta dallo stravolgimento della Costituzione che lei sventolava. Esalta il Patto del Nazareno con B. che manda in soffitta il conflitto d’interessi, la questione morale e il diritto dei cittadini di scegliere i propri rappresentanti. Difende i quattro sottosegretari inquisiti di Renzi. Spalleggia gli indagati Bonaccini (candidato in Emilia Romagna) e Bruno (alla Consulta) con la supercazzola “massimo rispetto per le indagini, ma anche per i diritti degli indagati”. E tanti saluti al testamento biologico, ai diritti civili, alla laicità e alla patrimoniale. Chissà la Debora prima della cura che direbbe della Debora dopo la cura. Qualcuno sostiene che, una volta arrivati al potere, diventino tutti uguali. Altri ritengono che Debora fosse già così nel 2009: aspettava solo il suo turno per prendere il posto dei “vecchi” e fare le stesse cose. In entrambi i casi, che tristezza.
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