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Minoranza Pd in fuga “Facciamo la guerra, ma come Togliatti”

renzi-cuperlo-civati-pdLA RESA BERSANIANA: “BISOGNA EVITARE CRISI DI GOVERNO E SOCCORSO AZZURRO”. FASSINA ISOLATO E CIVATI IN TRINCEA.

Gramsci e Togliatti, Renzo Arbore e un po’ di Giorgio Gaber. Lo Spregiudicato punta la pistola della fiducia alla tempia della minoranza e questa si arrende in un bel mattino soleggiato di autunno. Una bella morte, in fondo. Ad appena dieci giorni dalla direzione del Pd, ottobre non è più il mese rivoluzionario promesso dal glorioso quintetto base di quel giorno: D’Alema, Bersani, Civati, Cuperlo e Fassina. La prima fase della resa mescola l’arborismo e il realismo del Migliore. Indietro tutta per citare il mitico Renzo degli anni Ottanta della Rai e prima ancora il compagno Ferrini di Quelli della notte che sentenzia: “Non capisco ma mi adeguo”. La cadenza è la stessa di Pier Luigi Bersani, il gran capo della Ditta trasfigurata in vecchia guardia che in nome della responsabilità oggi voterà la fiducia al Senato.
 IL TRAVAGLIO dei bersaniani, dialoganti e non, è affidato al nuovo pupillo del mancato smacchiatore di giaguari, Alfredo D’Attorre, spilungone dal pensiero altissimo: “Ho appena comprato una ristampa dei discorsi di Togliatti, un volume sulla guerra di posizione in Italia. Non si può mica aprire una crisi di governo mandando per aria il Paese. Quella di Civati è una guerra di movimento, che non porta da nessuna parte. Noi, invece, abbiamo ottenuto che il jobs act migliorasse. Ora passa al Senato, alla Camera chiederemo altri miglioramenti perché le condizioni ci sono visto che Ncd non è determinante e che Sacconi qui non è presidente di Commissione. La guerra di posizione, appunto”. Aggiungono altri bersaniani del Senato: “Renzi avrebbe avuto il soccorso azzurro dell’amico Berlusconi e questo avrebbe accentuato il carattere della crisi”. Il quadro politico va di pari passo con la sostanza del provvedimento. Una sostanza che c’è ma non si vede. È una fiducia al buio su entrambi i fronti. Per chi l’ha imposta e per chi la subisce. Ed è per questo che renziani e vecchia guardia si scambiano reciproche accuse di debolezza. Per i primi deve interpretarsi così il cedimento dei bersaniani. Al contrario spiega il senatore Miguel Gotor, un tempo in auge come consigliere del principe Pier Luigi: “La richiesta della fiducia è un segno di debolezza di Renzi sia verso il suo partito sia verso la sua maggioranza”. Chi ha ragione? Chi è più debole? D’Attorre cita Ci-vati sulla differenza tra la guerra di posizione e quella di movimento per rinfacciare alla sinistra interna dura e pura la volontà di rottura totale.
 CON LA FIDUCIA, infatti, naufraga per sempre il sogno sussurrato e sempre smentito di trasformare la difesa dell’articolo nell’atto di rinascita del vecchio Pds, approdo di un’eventuale scissione. Non a caso, i toni di Civati sono solennemente assertivi: “Con questi qui, Renzi governerà per
i prossimi cinquant’anni. È clamoroso che i bersaniani votino la fiducia, è un segnale di debolezza”. E dagli con la debolezza. Oggettivamente renziani e civatiani concordano sul mancato coraggio dei bersaniani. Non solo. Sempre oggettivamente, la linea di Civati è quella del presunto soccorso azzurro preparato da Denis Verdini, lo sherpa renzusconiano del patto segreto del Nazareno. Nel piano di Verdini, infatti, alla bisogna alcuni senatori forzisti potrebbero uscire dall’aula di Palazzo Madama, dove l’astensione è contata come voto contrario. Idem i cosiddetti senatori civatiani che sono almeno cinque (Ricchiuti, Guerra, Tocci, Casson, fassina1Mineo). Civati non si impressiona: “Il gesto potrebbe essere lo stesso ma il senso è di-pressione al limite dell’esplosione. L’altro giorno ha minacciato “conseguenze politiche” sulla questione della fiducia, ma queste ancora non sono spuntate all’orizzonte. Perdipiù il povero Fassina viene sbeffeggiato così da avversari renziani e amici bersaniani: “Fassina è alla Camera e lì il suo voto conta ancora meno”.   Ma il punto centrale della resa è il sarcasmo di Civati sulle promesse della minoranza di battagliare in futuro, dal jobs act che arriva alla Camera alla frontiera della legge elettorale: “La volta dopo è sempre quella buona”. Nulla di nuovo sotto il sole. C’era una volta Gaber che cantava “la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente”. Titolo: Qualcuno era comunista.   verso. Verdini sarebbe un amico in più, noi degli amici in meno”. Per il leader degli antirenziani non togliattiani “la fiducia è un atto religioso nonché una delega in bianco alla terza potenza, se ne fa un uso deprecabile per questo ho scritto a Napolitano”.
 AI PICCOLI e medi fiumi che bagnano la minoranza interna del Pd affluiscono infine due rivoli in tempesta. Quello del laburista isolato Stefano Fassina e quello del dalemiano Gianni Cuperlo. Specifica quest’ultimo: “Sono un po’ meno responsabile di Bersani, vediamo il provvedimento quando arriverà alla Camera e come potrà essere migliorato. Solo allora deciderò”. Quanto a Fassina, la sua posizione registra un compressione al limite dell’esplosione. L’altro giorno ha minacciato “conseguenze politiche” sulla questione della fiducia, ma queste ancora non sono spuntate all’orizzonte. Perdipiù il povero Fassina viene sbeffeggiato così da avversari renziani e amici bersaniani: “Fassina è alla Camera e lì il suo voto conta ancora meno.” Ma il punto centrale della resa è il sarcasm0 sulle promesse della minoranza di battagliare in futuro, dal Jobs act che arriva alla Camera alla frontiera della legge elettorale.”La volta dopo è sempre quella buona”. Nulla di nuovo sotto il sole. C’era una volta Gaber che cantava “la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente”. Titolo: Qualcuno era comunista.

di Fabrizio D’Esposito
Il Fatto Quotidiano 08.10.2014

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