Annamaria Musotto voleva fare l’avvocatessa. Dopo il liceo, a diciott’anni, aveva lasciato la Sicilia e le campagne di Pollina, a cento chilometri da Palermo, per studiare giurisprudenza. Università prestigiosa, all’estremo opposto dello stivale: la Cattolica di Milano. Cinque anni per laurearsi e subito l’esame di abilitazione, superato senza difficoltà.
Un percorso lineare. Poi in lei scatta qualcosa. È un weekend di fine maggio, Annamaria ha 23 anni. È tornata a casa per trovare i genitori. In modo improvviso, quasi brutale, sente che la sua terra non la vuole lasciare più. “Ancora oggi – racconta – non riesco a trovare una spiegazione razionale a quello che mi è successo. Non è che mi fossi stancata dei miei studi, semplicemente ho avuto la sensazione nitida che il mio posto fosse qui”. Torna a Milano solo per fare le valigie, poi di nuovo a Pollina. Lascia la carriera appena avviata, ricomincia tutto da capo: vuole vivere di agricoltura.
La mamma e il papà di Annamaria avevano già una piccola azienda agricola, poco più di un orto che produce olio e agrumi. Per passione, non per mestiere. Lei riparte da lì, ma fa le cose in grande. Sui terreni dei genitori c’è un frassineto abbandonato. Annamaria lo rimette in sesto e lo fa crescere. Ora è una coltivazione di tre ettari con circa 1500 piante. I frassini hanno una peculiarità: dalla loro corteccia si produce la manna. Un dolcificante naturale che non scende dal cielo, come nell’Antico Testamento, ma deriva da un processo articolato e faticoso. E si produce quasi esclusivamente in queste terre della Sicilia. Bisogna incidere la corteccia dell’albero in un punto specifico, inserire un canaletto di metallo e tendere al suo interno una corda di nylon. La manna scorre su questi fili e si consolida sotto forma di piccole stalattiti. “È un’operazione – spiega Annamaria – che inizia nelle prime ore della giornata: il legno va intagliato tra le 4 e le 5 di mattina, quando non è ancora sorto il sole. Così durante il giorno la manna ha il tempo di seccarsi e addensarsi, per essere raccolta”. La vita da agricoltore ha orari rigidi e stagioni definite: “L’intera produzione è concentrata tra la fine di giugno e la metà di luglio – prosegue – ma nel resto dell’anno non ci si annoia certo: bisogna organizzare la distribuzione, la pubblicità, il commercio e ogni altro aspetto dell’attività”.
LA SCOMMESSA di ricominciare dall’agricoltura, per Annamaria, si può dire vinta? “Il primo anno per l’azienda agricola è stato durissimo per colpa soprattutto del cattivo tempo. Il secondo è andato meglio e sono riuscita a coprire tutti i costi. Ora ho ingranato e sono convinta che andrà sempre meglio. Il bilancio economico della mia esperienza è ancora incerto. Ma non rimpiango nulla del mio percorso: sono felice e non tornerei indietro mai e poi mai”. La sua è una delle decine di storie di giovani (e meno giovani) che scelgono consapevolmente di lasciare le città e “tornare” alla terra. Li chiamano “i nuovi agricoltori”. Colpa o merito della crisi, ma in molti casi anche di un’intuizione creativa. Come quella di Paolo Guglielmi, contadino di successo dopo aver studiato statistica a Roma, con l’obiettivo di diventare un broker. A Monte San Vito, in provincia di Ancona, si è inventato le “agri-colonie”: campi scuola organizzati per far conoscere ai bambini delle scuole la bellezza del lavoro della terra. O come Cristina Scappaticci, laziale, che si è reinventata organizzatrice di “agri-matrimoni” (dall’allestimento floreale, alle bomboniere gastronomiche, al pranzo nuziale a chilometro zero). E grazie alla collaborazione con l’osservatorio astronomico di Campo Catino, ha trasformato il suo agriturismo in un punto di riferimento per chi vuole contemplare il cielo stellato.
Il Fatto Quotidiano 16.06.2014