Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha scritto una lettera a Eni, Enel e Finmeccanica perché convochino un’assemblea straordinaria che “introduca nello statuto sociale un’apposita clausola in materia di requisiti di onorabilità e connesse cause di ineleggibilità e decadenza dei componenti il Consiglio di amministrazione”. Così il governo Renzi s’è sbarazzato di un po’ di manager inquisiti o condannati, a partire dal’Ad dell’Eni Paolo Scaroni, liberando poltrone in vista della grande abbuffata di nomine nelle aziende pubbliche. Scaroni s’è detto “sorpreso”: “Siamo quotati, competiamo nel mondo, perché dobbiamo avere norme che altri non hanno? Quella norma non esiste in nessuna società al mondo”. Può darsi, ma per un motivo banale: negli altri paesi non c’è bisogno di norme scritte per indurre un inquisito o – a maggior ragione – un condannato a mollare la poltrona, specie se è un politico o un dirigente stipendiato dai contribuenti. Bastano gli standard etici comunemente accettati a indurlo a sloggiare ipso facto. In Italia non se ne va mai nessuno, nemmeno dopo che i carabinieri gli hanno messo le manette, dunque sì, da noi ci vuole una norma. Ma qui sorge una questione che interpella direttamente il premier Renzi: il suo governo ha le carte in regola per imporla alle aziende pubbliche? La risposta, purtroppo, è no. Il ministro delle Infrastrutture, Lupi, è indagato per abuso d’ufficio, e il sottosegretario all’Interno, Bubbico, è imputato per lo stesso reato. Il sottosegretario ai Trasporti, Del Basso de Caro, è indagato per peculato, così come quello al Turismo, Barracciu, e quello alla Salute, De Filippo. Tutti e cinque erano già nei guai con la giustizia prima di entrare nel governo, eppure furono nominati lo stesso. Si attende dunque di sapere da Renzi quali sarebbero i “requisiti di onorabilità” e le “connesse cause di decadenza” dei membri del governo. Siccome non si dimettono quando sono indagati, e neppure quando sono rinviati a giudizio, che ci vuole? La condanna di primo grado, o di appello, o di Cassazione, o non basta neppure quella?
Ieri s’è dimessa la ministra della Cultura del governo britannico, Maria Miller. Non è neppure indagata, ma l’autorità di controllo sulla Pubblica amministrazione l’accusa di aver sottratto alla collettività la bellezza di 5.800 sterline (7 mila euro), infilando nelle sue note spese un pezzettino di mutuo della seconda casa a Wimbledon (che peraltro dal 2005, quando fu eletta, le serve per lavorare a Londra, essendo una “fuori sede” in trasferta). La ministra ha restituito la somma e s’è scusata in Parlamento, ma “non abbastanza” secondo i giornali e il Labour, il partito di opposizione, che le ha chiesto spiegazioni più convincenti. Il suo partito, quello conservatore, l’ha scaricata. E lei se n’è andata con una lettera al premier Cameron in cui spiega che si assume “la piena responsabilità delle mie azioni” e che “la situazione era diventata una distrazione per il lavoro vitale che il governo sta svolgendo per cambiare il Paese”. Il suo collega dell’Educazione, Michael Gove, ha commentato che le sue dimissioni, subito accolte dal primo ministro, “devono servire da avvertimento per l’intera classe politica”. Se ora, com’è già accaduto a diversi ministri e parlamentari inglesi negli ultimi anni, anche la Miller sarà inquisita e processata, le sue vicende giudiziarie non avranno la benché minima influenza sul governo di Londra e sulla vita politica britannica. Perché, a essere processata, sarà una “ex”. Al contrario, le indagini e gli eventuali processi sui casi Lupi, Bubbico, Del Basso de Caro, Barracciu e De Filippo avranno serie ripercussioni (“distrazioni”, direbbe la Miller) sul governo Renzi, proprio perché gli inquisiti restano al loro posto: in nome della “presunzione di innocenza”, dice la ministra Boschi. Si spera che gli occhiali da lei sfoggiati nelle ultime comparsate televisive siano da vista, e non di bellezza: così potrà leggere le ultime cronache da Londra e, si spera, anche capirle.
Il Fatto Quotidiano 10.04.2014