In Italia sconosciuto lo stato chimico del 78% delle nostre acque superficiali e lo stato ecologico del 56%. Lazio prima regione a sancire ripubblicizzazione del servizio idrico.
L’Europa ci chiama con forza e da tempo a tutelare le nostre acque interne e costiere e a recepire la direttiva quadro 2000/60. Continuano a essere pochi in Italia i casi in cui si è investito sui corsi d’acqua con interventi di riqualificazione, rinaturalizzazione, prevenzione e mitigazione del rischio e insieme di tutela degli ecosistemi. I fiumi, le falde e i laghi sono visti molto spesso solo come una minaccia per il rischio di esondazione, un ricettacolo di scarichi non depurati e di sostanze industriali oppure come una risorsa da sfruttare il più possibile tramite derivazioni, prelievi di acqua o di ghiaia, cementificazione degli alvei.
Domani, sabato 22 marzo 2014 ricorre la giornata mondiale dell’acqua; per l’occasione Legambiente presenta un’analisi sulla sfida della qualità e della tutela delle risorse idriche in Italia.
Il 22 dicembre 2015 scade il termine per il raggiungimento degli obiettivi ambientali previsti dalla direttiva quadro sulle acque 2000/60 in termini di conseguimento (o mantenimento) del “buono” stato ecologico per tutti i corpi idrici. Obiettivo della Water Framework Directive è fissare un quadro comunitario per la protezione delle acque superficiali interne, di transizione e di quelle costiere e sotterranee, che assicuri la prevenzione e la riduzione dell’inquinamento, agevoli l’utilizzo idrico sostenibile, protegga l’ambiente, migliori le condizioni degli ecosistemi acquatici e mitighi gli effetti delle inondazioni e della siccità.
I numeri raccolti dall’Agenzia Europea per l’Ambiente nel 2012 (dati 2009), che ancora oggi rappresentano l’ultimo quadro nazionale di riepilogo sul tema, rivelano che nel 2009 erano il 42% i corpi idrici superficiali europei che godevano di un buono o elevato stato ecologico, nel 2015 si prevede che lo stato auspicato verrà raggiunto solo dal 52% di essi. In Italia la situazione non sembra migliore: secondo la relazione sull’attuazione della WFD presentata nel 2012 dalla Commissione europea innanzitutto non si conosce lo stato ecologico del 56% e lo stato chimico del 78% delle acque superficiali; i corpi idrici che ricadono nelle classi “elevato” e “buono” per lo stato ecologico sono complessivamente il 25%, mentre per lo stato chimico sono in classe buono il 18% le acque superficiali monitorate. Anche per le acque italiane le prospettive di aumento delle percentuali per il 2015 sono purtroppo minime. Questi dati del 2009 sono gli unici a cui riferirsi per avere un quadro completo, coerente e certificato. Un problema riscontrato durante le ricerche di Legambiente è stato rappresentato proprio dalla disomogeneità e frammentarietà dei monitoraggi portati avanti dalle Regioni.
Si continuano poi a registrare numerosi i casi d’inquinamento di corsi d’acqua, laghi o falde che causano gravi danni ai territori e alle popolazioni, con conseguenze sanitarie che possono derivare dall’uso (potabile ma soprattutto agricolo) dell’acqua contaminata. Dalle informazioni fornite dagli stessi impianti italiani (per il registro europeo E-PRTR), emerge che nel nostro Paese nel 2011 sono state emesse oltre 140 tonnellate di metalli pesanti direttamente nei corpi idrici e quasi 2,8 milioni di tonnellate di sostanze inorganiche (Cloruri Fluoruri e Cianuri) di cui quasi la metà derivanti da attività di tipo chimico. Tra le sostanze organiche ritenute pericolose in via prioritaria rientrano l’antracene, il benzene, gli IPA (idrocarburi policiclici aromatici): sono state immesse 2,9 tonnellate di nonilfenoli cioè il 60% circa dell’ emissione europea totale per questa sostanza, 1,25 tonnellate di IPA (pari al 39% della quantità totale dichiarata a livello europeo per il 2011) e 0,91 tonnellate di benzene legate quasi esclusivamente al settore della produzione e trasformazione dei metalli.
“Oltre al danno la beffa. Infatti agli aspetti ambientali si aggiunge, sul fronte economico, la minaccia di pesanti sanzioni per le procedure d’infrazione che scaturirebbero dal mancato rispetto delle direttive – commenta Giorgio Zampetti, responsabile scientifico di Legambiente -. È sempre più urgente quindi avviare una seria e concreta politica di tutela delle risorse idriche. Occorrono piani strategici che puntino a ridurre i prelievi e i carichi inquinanti, ricorrendo anche a misure come la riqualificazione dei corsi d’acqua, la rinaturalizzazione delle sponde, la fitodepurazione, il riutilizzo delle acque ai fini industriali e irrigui e la ricerca di soluzioni al problema dell’artificializzazione dei corsi d’acqua e dell’impermeabilizzazione dei suoli. Occorre armonizzare e coordinare i tanti livelli di pianificazione oggi esistenti in materia di risorse idriche e applicare strumenti di partecipazione adeguati – conclude Giorgio Zampetti -, non semplici consultazioni su piani già chiusi, ma percorsi che individuino, insieme a tutti i soggetti interessati, le criticità e le politiche da mettere i campo per risanare e tutelare le risorse idriche nel nostro Paese”.
L’acqua è un bene comune fondamentale per la vita, da preservare nella qualità oltre che nella quantità, e di cui dobbiamo assumerci tutti la responsabilità diventando parte attiva di un’auspicata politica di gestione e tutela delle risorse idriche nel nostro Paese, per un’acqua pubblica e accessibile a tutti. Il Lazio con l’approvazione della nuova legge di iniziativa popolare in Consiglio Regionale è la prima regione d’Italia che sancisce in maniera inequivocabile che l’acqua è un bene pubblico inalienabile la cui gestione deve essere ri-pubblicizzata.
Una nuova politica di tutela delle risorse idriche può rappresentare un’opportunità anche in termini economici: un recente studio dell’istituto di ricerche Ambiente Italia ha stimato che a fronte di un investimento ipotizzato nel settore idrico di 27 miliardi di euro nei prossimi 10 anni si potrebbero creare oltre 45.000 posti di lavoro. Rimane il nodo su come reperire le risorse su cui si potrebbe, fin da subito: applicare il principio chi inquina paga: un principio generale, assunto dalla legislazione comunitaria come riferimento-guida con il duplice obiettivo di rendere non vantaggiosi gli inquinamenti evitabili, e di recuperare risorse per le azioni di risanamento;
definire una tariffazione progressiva del servizio idrico che tenga conto delle condizioni economiche e sociali degli utenti, scoraggi i grandi consumi e preveda l’attuazione del full cost recovery e il principio “chi inquina paga”;
prevedere opportune tasse di scopo (questo proposito un importante opportunità deriva dai canoni di concessione stabiliti dalle regione per i diversi usi della risorsa idrica in Italia, imbottigliamento, agricolo o industriale);
sfruttare la grande opportunità dei Fondi strutturali europei, che dovrebbero vedere nelle politiche di tutela delle risorse idriche e di applicazione degli obiettivi delle direttive europee acque (2000/60) e alluvioni (2007/60) una delle loro finalità principali.