La crisi dell’Italia è troppo profonda per poterne uscire con soluzioni semplicistiche, tutte mirate sull’effetto immediato che possono avere sui media, vecchi e nuovi. Con la lingua di Renzi si possono vincere le primarie, si possono fare titoli di giornale, si può fuggire dalla politica, ma forse non si può dare al mondo un’altra luce, un’altra storia. I giovani renziani non somigliano agli italiani che abbiamo conosciuto nelle sezioni del Partito comunista. Sono verbosi, come erano verbosi i vecchi comunisti, ma in loro tutto sembra orientato alla vendita di un prodotto, più che a una visione della società. I vecchi comunisti pure ti volevano vendere la loro idea, che alla fine era sempre quella del cambiamento, ma prima ti facevano una lunga analisi della società capitalistica. Qui, invece, non si capisce di che cambiamento si tratta. L’unica cosa chiara è che deve essere veloce, istantaneo: invece del caffè fatto con la macchinetta, quello solubile, invece della camomilla che deve stare in infusione, la polverina che si scioglie nell’acqua calda. Renzi è un rottamatore, ma in realtà non è in conflitto con nessuno. Il Cavaliere un nemico, anche se inesistente, comunque lo indicava. Il suo era il popolo della libertà contro gli oppressori comunisti ossessionati dalle tasse.
Con i giovani renziani anche l’attitudine di Berlusconi di cambiare idea velocemente si è molto affinata. Il corruttore lussurioso ancora si giustificava dicendo che lo avevano male interpretato. Renzi è talmente avanti che rottama ogni giorno anche le affermazioni del giorno precedente. La faccenda incredibile è che tutto questo avviene senza che la cosiddetta società civile si scandalizzi più di tanto. Anzi, la sensazione è che la vacuità delle lingue dei dominanti sia specchio della vacuità delle lingue dei dominati. Moro non parlava come si parla al bar. E neppure De Mita, che al bar però giocava a carte. La novità tra i vecchi e i nuovi democristiani è che i nuovi parlano come si parla al bar o nei quiz televisivi.
Si dice che nei momenti di crisi e di confusione a un certo punto arriva l’uomo forte. Da noi è arrivato l’uomo che fa politica fuggendo dalla politica. La sua animosa fuga riesce a nascondere la drammatica indigenza lessicale che invece esibiscono i suoi seguaci. La caratteristica di questa lingua è che non si traveste come fanno altre lingue: Cuperlo parla un italiano che non esce mai dal guscio e la lingua di Casini sa di preservativo. Anche Grillo sembra aver esaurito le sue risorse linguistiche: il vaffanculo era efficacissimo all’inizio, adesso sa di stantio. La lingua dei renziani non dice nulla, è un riassunto che di volta in volta si compone di una sola parola: velocità, rottamazione, semplicità, futuro, vincere, cambiare. Renzi non studia, mette una sola parola sul foglio bianco, una parola che riassume il mormorio dell’Italia post-politica di cui lui è indubbiamente il più brillante interprete. In attesa della necessaria creazione di nuova lingua di sinistra (per la quale la lista Tsipras è una bella occasione) per ora gli unici competitori rimasti sulla scena sono Grillo e Berlusconi, fieri antipolitici, ma incapaci di fare riassunti così lapidari.
RENZI È COME quelle strisce che si mettono nelle feci per vedere se c’è il sangue. Lui non è la cura, è un reagente chimico che ci parla della stanchezza degli italiani ammorbati da una politica che ha parlato lungamente e fumosamente. Opportunamente Marco Belpoliti su Doppiozero scrive che “milioni di persone lo sostengono non per ragioni ideologiche (parola obsoleta, per il momento), non perché bello (non lo era neppure Berlusconi), non perché programmatico (chi ricorda solo una sua proposta?), ma perché reagisce allo stato di cose presente”. Renzi “reagisce, non agisce”.
Molti pensano che possa ben governare. È un pensiero da rispettare, anche se è formulato pensando agli aspetti contingenti dell’esistenza. Comunque, ammesso che un governante ci riesca a portare un poco fuori dalla crisi economica, poi cosa facciamo? Cosa ce ne facciamo di una società senza lingua e senza profondità? I politici chiusi dentro le schermaglie quotidiane della politica sono ripetitori dell’ovvio. La politica uccide la lingua e per capire quanto è banale la lingua dell’uomo politico medio basta sentirlo parlare di cinema o di poesia o di un paesaggio o di un bambino. Davanti a questo compito la lingua del politico diventa stucchevole, intimamente impropria. Vedremo se Renzi riuscirà ad aprire le sue parole mantra e a farne uscire altre, piene di anima e di sangue. Le strade della civiltà non si fanno solo con le pietre e l’asfalto, si fanno anche con la lingua: è grazie alla lingua che abbiamo dominato il mondo e ora forse è il caso di dare spazio al pensiero, di dismettere volontariamente un antropocentrismo che è diventato autodistruttivo. Non sarà certo Renzi il protagonista di questa stagione, speriamo che faccia bene il poco che può fare.
Il Fatto Quotidiano 26.02.2014