L’immagine è quella di un paese ormai perduto. Di un posto in cui è inutile affannarsi, denunciare, cercare di fare o ragionare. A fotografare questa Italia martoriata ci pensa il racconto dello sdegno (spesso fasullo) e delle condanne (sempre di rito) seguite all’ultima minaccia di Vincenzo De Luca.
Tutti si stracciano le vesti per quelle due parole violente – “infame” e “da uccidere” – che il guappo di cartone ha pronunciato contro Rosy Bindi dalla poltrona più alta di una Regione in cui la violenza e il sangue sono quasi la regola.
“Enzo, si scusi”, gli dice il presidente del consiglio pro tempore, Matteo Renzi. “E’ indecente”, urlano stampa e tv. Lui a sera scrive due righe e tutto si cheta. Scompare così, perché ignorata l’altra e ancora più grave notizia su De Luca. Quella scoperta dal nostro Fabrizio d’Esposito. Evaporano gli audio in cui il finto capo bastone salernitano chiede in pubblico, davanti a 300 sindaci e amministratori locali di darci sotto col voto clientelare. Agli applausi e alle risate dei presenti si aggiunge l’indifferenza del Paese, quello che, come si dice, conta. L’establishment è compatto. Le elité, piccole o grandi che siano, serrano le fila. C’è un referendum da vincere.
Pare allora giusto e normale che De Luca citi come esempio da seguire Franco Alfieri, il suo consulente “per agricoltura, pesca e caccia”, un uomo che non aveva potuto candidare perché considerato da tutti, anche nel suo partito, impresentabile. De Luca parla e Alfieri, il sindaco di Agropoli, diventa un eroe per questo mondo che ondeggia tra la boria e la paura. Non importa che sia stato miracolato dalla prescrizione in un processo per corruzione non conta che sia stato condannato dalla Corte dei Conti o che sia accusato di non aver sgomberato da alcune case sotto confisca una banda criminale composta tutta da suoi grandi elettori. Il presidente della Regione anzi lo elogia, proprio perché “notoriamente clientelare”. Ragiona su “una clientela organizzata, scientifica, razionale come Cristo comanda”. Dice: “Che cosa bella!”. Gli chiede 4000 voti cammellati. Poi invita gli altri a fare lo stesso: vuole che nel suo ufficio arrivino le stime “realistiche” su quanti Sì ogni amministratore potrà portare. In questo modo, mentre il premier pro tempore assicura che il guappo di cartone “è un campione della lotta alla mafia e alla camorra nel suo territorio”, in Campania l’illegalità dilaga. Certo, De Luca e i suoi non sparano. Al massimo dicono sì ad alleanze con liste elettorali come Campania in Rete ispirate da amici di Nicola Cosentino, l’ex sottosegretario condannato in primo grado perché legato al clan dei Casalesi.
Ma le loro parole e scelte sì che uccidono: la politica e quasi tutta la speranza. Ad Agropoli chi, dall’interno del Pd, denunciava il malaffare, è stato cacciato. Un venticinquenne, Carmine Parisi, diventato per qualche tempo l’eroe di molti giovani militanti di quel partito, ha detto “hanno vinto loro” e se ne è andato a Roma. Ora prova a fare l’avvocato. Ma dicono che voglia tornare. Il 30 novembre terrà un iniziativa pubblica per il No assieme a Massimo Villone e l’altro “espulso” di Agropoli, l’ex sindaco Ds, Antonio Domini. Per questo, anche noi che raccontiamo tutti i giorni un Paese affascinante e disperato come il nostro, pensiamo che chi vuole opporsi ai prepotenti e ai loro bravi farebbe bene ad andarci. Non per dire che voterà contro la riforma. Ma per dire sono qui. Perché Agropoli è l’Italia. Perché l’Italia si chiama Carmine Parisi e non De Luca.
Peter Gomez
Il Fatto Quotidiano 20.11.2016