La Regione Campania ha deciso di chiudere l’ospedale di Bisaccia e ne ha concepito un altro uso. Vaga la chiusura, indefinita la destinazione.
Nello spazio antistante stanno costruendo un elisuperficie. Siamo già oltre i tempi di consegna, ma queste sono cose a cui non bada nessuno. In Irpinia d’oriente l’ospedale non è questione di flebo e bisturi, ma di carte. La destinazione attuale parla di SPS, struttura polifunzionale per la salute. Semplicemente non esiste. C’è un reparto di medicina e uno di lungodegenza, quaranta posti che ora per una direttiva del Direttore Generale devono scendere a venti. Poi c’è un reparto dedicato ai malati psichici. Anche qui occhio al nome: struttura psichica intermedia residenziale terapeutico riabilitativa per la fase estensiva. Quante parole per dire che si tratta di un po’ di stanze dove vengono somministrati sedativi. Una cosa più umana rispetto ai vecchi manicomi, ma ben lontana da quello che si dovrebbe fare per chi entra nel cono d’ombra delle sofferenze mentali.
Le sigle non sono finite. Il pronto soccorso è chiuso da sedici anni e se arrivi nella struttura non trovi il Saut né lo Psaut, ma il Sait, servizi assistenziali infermieristici territoriali.
Qualche sera fa ho portato un mio congiunto che aveva un dolore toracico. La situazione non sembrava difficile. L’infermiere ha fatto il tracciato. È sceso il medico, diagnosi rassicurante. Se fosse stata dubbia non ci sarebbe stata la possibilità di fare gli esami enzimatici. Insomma se ci fosse stato un infarto avremmo solo perso un’ora di tempo. E in quel caso bisognava fare oltre un’ora di macchina per arrivare all’ospedale più vicino. In Irpinia gli ospedali di Sant’Angelo e Ariano non sono in grado di trattare in maniera ottimale il paziente infartuato. Ad Avellino in un’ora e mezza arrivi all’ospedale, ma non al pronto soccorso. Per quello devi indovinare la via, visto che è stato fatto in un punto poco accessibile. Come se avessero voluto organizzare la caccia al tesoro. Poi una volta che sei sbarcato ti trovi davanti un infermiere dietro un vetro che ti attribuisce il codice e devi spartire le attenzioni dei medici con tanti malati veri o immaginari che arrivano ormai da tutta la regione.
In Irpinia d’Oriente non solo non hai diritto alla salute, ma non hai neppure diritto a sapere dove ti possono curare. Più che un ospedale sembra un’installazione di arte contemporanea: puoi andarci non per curarti, ma per vedere se è aperto o se è chiuso. Si emigra come sempre anche per le malattie, ma se ti presenti non ti chiudono la porta. A Bisaccia ci sono sei portieri, tra loro anche un cuoco. Per i dirigenti c’è il problema di affidare mansioni immaginarie, in attesa che il pensionamento dia un inquadramento chiaro ai dipendenti. Ce ne sono centoquattro e la notizia è piuttosto clamorosa in un ospedale chiuso. In verità non mancano neppure i pazienti, sono poco meno di cinquanta, quasi tutti in età molto avanzata. Come se questo fosse una sorta di discount della sanità, un luogo crepuscolare, un luogo in cui la struttura è il malato più di chi vi fa ricorso. Molte di queste persone potrebbero in effetti essere curate assai meglio in casa, ma la sanità del futuro è difficile da costruire dove non c’è neppure quella del presente.
Un sindacalista della Uil mi dice che non è il caso di tenere cattivi rapporti con il Direttore Generale, l’ingegnere Florio. Alla fine l’importante è che non sposti nessun dipendente altrove, in attesa di tempi migliori. Intanto Florio pensa a risparmiare. L’ASL irpina ha restituito venti milioni di euro alla regione Campania nel 2011 e altrettanto si appresta a fare nel 2012. Il gioco è facile: molti servizi ci sono solo sulla carta. In una situazione del genere dovrebbe intervenire la politica e la politica interviene scrivendo un piano dopo l’altro, insomma il solito lavorio per garantire gli interessi delle cliniche private e far finta di occuparsi di tutti. Un vecchio gioco che i sindaci della zona dovrebbero denunciare con fermezza. Ma qui scatta l’assenza dei partiti, dei sindacati, delle associazioni, in poche parole della società. Il sindaco del mio paese, che è anche medico da sempre in servizio a Bisaccia, mi incrocia nell’atrio, mi saluta e se ne va. Non è uno che crede alle proteste di popolo (e per questo si era affidato alle promesse di un assessore regionale, puntualmente smentite dai fatti).
Io mi aggiro nei corridoi, negli uffici, sto in un luogo che potrebbe essere affiliato alla lista dei non luoghi concepiti da Marc Augé. Sento che mi è venuto l’amaro in bocca. Qualche dipendente giustamente mi raccomanda di non prendermela con loro. Uno mi dice sconsolato che è senza carichi di lavoro. Immagino la furia di un giornalista leghista nel sapere quanto costa il riscaldamento di questa struttura. E forse l’unico vero paziente è fuori. È un gatto con le zampe posteriori spezzate. Comunque si muove, va a prendersi il cibo che gli portano i malati del reparto psichiatrico. Ecco, oggi l’animale ferito è la tenerezza, la verità di una creatura dolente dopo il giro tra medici, portieri, sindacalisti e infermieri. Li conosco bene, alcuni possono essere accusati di piccole astuzie, altri di un po’ di accidia, nient’altro. Un vero colpevole c’è e ha un nome preciso. Si chiama Ciriaco De Mita. È lui che ha modellato la sanità in Campania, è lui la malattia.
Franco Arminio
il fatto quotidiano 25.11.2012