“Uno spettro si aggira per l’ Europa. No, non è lo spettro del comunismo di cui parlava Marx nel Manifesto del Partito Comunista. Lo spettro, oggi, è un altro: quello del populismo. Ecco la grande paura dei poteri forti, invisibili (anch’essi, dunque, in un certo modo spettrali), che controllano quella che Ida Magli definisce la Dittatura Europea: la paura che nel Parlamento europeo, alle prossime elezioni, si insinuino – a fianco alle forze dei partiti “tradizionali” – movimenti di aperta e reale opposizione a questa idea d’Europa, a questa oligarchia economico-finanziaria che è stata chiamata Unione Europea. E allora ecco che, una volta individuato il nemico, bisogna dargli un nome e combatterlo: il nome è populismo, e la sua versione italiana è il M5S. Cominciamo a fare un poco di chiarezza. Il “populismo” non esiste. Esistono i populisti, che tra loro non hanno, talvolta, nulla in comune, e che possono esprimere, di volta in volta, movimenti radicali di protesta, forme politiche reazionarie. Cos’hanno a che vedere i populisti russi, i narodniki slavofili, con i populisti della guardia del ferro rumena? Come definire sotto un’unica categoria, il populismo gandhiano, la Jacksonian democracy ed il peronismo? Questa “caccia al populismo” esiste almeno da vent’anni in Europa. Come ricorda Jean-Claude Guillebaud, nell’articolo Populismo scritto nel 1996, il termine ha conosciuto nel corso degli anni novanta “uno straordinario destino mediatico“, designando in modo vago “ogni pensiero che si allontanasse dall’ortodossia monetaristica liberale“. In questo modo, populismo diventa un’arma retorica da utilizzare contro i gruppi più vari e diversi: dai trozkisti agli ecologisti, dalle destre reazionarie e neo-fasciste ai movimenti di critica sociale e di protesta. Troppo facile e riduttivo pensare, come fa Eco (*), il populismo come “una forma di regime che […] tende a stabilire un rapporto plebiscitario immediato tra il leader carismatico e le folle“. In questo modo il termine “populismo” diventa essenzialmente polemico, una marca per stigmatizzare fenomeni ed esperienze del tutto eterogenee (il tatcherismo diventa una forma di “populismo ibrido” comparabile al nazional-populismo dell’estrema destra francese, al telepopulismo berlusconiano al populismo agrario polacco, al socialismo populista di Lumumba, e così via (**). Cosa significa tutto ciò? Che non c’è alcuna dottrina, alcuna teoria politica che possa definire il populismo. Il populismo non è una teoria politica: è, piuttosto, una sindrome – una serie di sintomi, di segni indicativi di una malattia. È ciò che esprime un malessere che cova all’interno della società, che lo porta di volta in volta in forme diverse alla luce. Il “populismo” non è che il nome retorico del malessere di un’Europa malata, l’ Europa dei banchieri della speculazione finanziaria, del partito unico dell’ Euro che sta riducendo alla fame milioni di cittadini europei. Il punto non è, allora, che cosa sia il populismo (il populismo non è niente, non esiste). È, piuttosto, quale Europa vogliamo. È questo il vero tema di discussione, il vero punto critico, la questione reale che forze come il M5S rappresentano sulla scena nazionale ed europea. In Europa il M5S, la sua presenza nel Parlamento Europea, imporrà una ridiscussione dell’idea di Europa che si è costruita, imporrà l’esigenza diun’Europa che deve tornare ad essere quella dei popoli e non delle grandi elites finanziarie. Il “populismo” non c’entra nulla. È di questo che hanno paura i poteri forti. E se in Italia non si avranno elezioni politiche a breve termine, è perché si teme che alla presidenza di turno dell’Italia si presenti una forza a 5 stelle. La rivoluzione cominciata in Italia si estenderebbe allora immediatamente in Europa: è questa la vera ragione perché non ci saranno elezioni politiche in Italia. Ci saranno, però, quelle europee, ed è lì che il M5S potrà e dovrà ripetere il successo delle precedenti politiche. Da cosa cominciare, dunque, per una nuova idea di Europa? Che cosa vogliamo? Che cosa non vogliamo? La discussione deve cominciare, finalmente. Ci piacerebbe che essa fosse ispirata da una riflessione di uno dei più grandi filosofi della seconda metà del novecento, John Rawls, il quale scriveva (***): “Un punto sul quale gli europei dovrebbero interrogarsi riguarda, se mi si concede di azzardare un suggerimento, quanto lontano vogliono che si proceda con la loro unificazione. Mi sembra che molto sarebbe perduto se l’Unione europea diventasse un’unione federale come quella degli Stati Uniti. In quest’ultimo caso, infatti, esiste un linguaggio condiviso del discorso politico e una completa disponibilità a passare da una all’altra forma di Stato. Inoltre, non sussiste un conflitto tra un ampio e libero mercato comprendente tutta l’Europa, da una parte, e dall’altra i singoli Stati-nazione, ciascuno con le proprie istituzioni, memorie storiche, e forme e tradizioni di politica sociale. Sicuramente questi elementi sono di grande valore per i cittadini di tali paesi, poiché danno senso alle loro vite. Un ampio mercato aperto che includa tutta Europa rappresenta l’obiettivo delle grandi banche e della classe capitalista, il cui principale obiettivo è semplicemente quello di realizzare il più alto profitto. L’idea di crescita economica progressiva e indeterminata caratterizza perfettamente questa classe. Quando parlano di redistribuzione, lo fanno di solito in termini di redistribuzione a gocciolamento. Il risultato a lungo termine di questa politica economica — già in atto negli Stati Uniti — conduce ad una società civile travolta da un consumismo senza senso. Non posso credere che ciò è quanto desiderate” Paolo Becchi
(*) U. Eco, Ammazza l’uccellino, in Id., A passo di gambero
(**) Si vedano, a questo proposito, le classificazioni analizzate da P.-A. Taguieff,L’illusione populista
(***) Lettera scritta da Rawls a P. Van Parijs nel 1998, pubblicata in J. Rawls – P Van Parijs, Three Letters on The Law of Peoples and the European Union, in «Revue de philosophie économique», 8, 2003, pp. 7-20; trad. it. Dialogo sull’Europa, in «MicroMega», 2, 2012, pp. 197-220).