Equità-Solo la ridistribuzione ci salverà dal fallimento economico e sociale. Ridistribuire non solo per ideologia, ma anche per una maggiore efficienza.
Nel film I cento passi di Marco Tullio Giordana, Peppino Impastato faceva un discorso inoppugnabile: a furia di osservare le brutture delle nostre città, il nostro paese, finisci tuo malgrado per convincerti che tutte le cose hanno una loro logica, una giustificazione per il solo fatto di esistere. “Fanno ’ste case schifose con le finestre in alluminio, i muri di mattone vivo, i balconcini. Poi la gente ci va ad abitare, ci mette le tendine, i fiori, i gerani, e dopo un po’ tutto fa parte del paesaggio. C’è, esiste, nessuno si ricorda più di come era prima o immagina come avrebbe potuto essere”. Come avrebbe potuto essere tutto più bello. Non ci vuole nulla a distruggere la bellezza, o peggio ancora a dimenticarne l’importanza. Viviamo in un paese bellissimo, ma lo saccheggiamo continuamente.
Il degrado urbano è solo una delle tante forme di quello sociale che ci attanaglia. Ci siamo assuefatti a ogni sorta di bruttura e stortura: dalle case con le finestre in alluminio alla disuguaglianza diffusa. Un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro, tutte le storture sono diventate parte di un sistema immutabile. O meglio: un sistema che crediamo immutabile. Ci viene insegnato sin dalla più tenera età che chi vuole contribuire a cambiare le cose, specie nel Mezzogiorno, è nella migliore delle ipotesi un povero illuso innamorato di sogni irrealizzabili, e nella peggiore un pazzo.
NON CI STUPISCE più né l’evasione fiscale né il lavoro nero. Non ci stupisce più che gli ordini professionali abbiano come fine principale di protrarre il controllo di pochi privilegiati, anziché tutelare il consumatore e chi cerca affannosamente di entrare a farne parte sulla base di una qualifica acquisita con anni di studio e sacrifici. Non ci stupisce più che lo stato sociale accresca le disuguaglianze invece di ridurle, né l’esistenza di pensioni d’oro assegnate a chi ha versato la metà di quanto riceve, mentre i giovani precari vengono sacrificati sull’altare della flessibilità. Non ci stupiscono più le disuguaglianze regionali o la questione meridionale, come se fosse normale che una madre di Catanzaro non abbia il diritto di portare suo figlio all’asilo nido per essere indipendente dalla sua famiglia e attiva sul mercato del lavoro. Già, non ci vuole proprio nulla a distruggere la bellezza, o peggio ancora a dimenticarne l’importanza. Così come non ci vuole nulla a dimenticare quanto sia importante l’uguaglianza di condizione e di opportunità per costruire un paese sano. Bisognerebbe ricordare a tutti quanti, specie a chi si professa progressista, quanto è gratificante vivere in un paese dove si cura il bello e si combattono le disuguaglianze. Dovremmo ricordare a tutti quanto è bello affacciarsi da una terrazza e osservare che le cose stanno migliorando, che la gente nel suo affaccendarsi quotidiano non si è dimenticata degli altri; perché per vivere meglio e in pace con se stessi è fondamentale che stia bene anche chi ci sta intorno.
Il problema vero è proprio questo: ci limitiamo alle invettive, tutti, a Destra come a Sinistra; reazionari contro rivoluzionari, ma mai disposti a sacrificare quanto ci è stato ingiustamente attribuito a spese della collettività per rendere il paese in cui viviamo più egualitario e funzionale. Rinuncerebbero i nostri pensionati più ricchi a una piccola parte della loro pensione per pagare il sussidio di un trentenne disoccupato? Rinuncerebbero i membri degli ordini professionali a parte delle loro rendite di posizione per far inserire sul mercato del lavoro giovani e valenti professionisti? Io credo che queste siano le domande da porci, che da questo dovremmo partire per scardinare il sistema ingiusto nel quale viviamo.
NON ASPETTARE una marcia collettiva verso il nirvana, ma cominciare nel nostro piccolo; mentre gli altri, quelli “furbi”, si prenderanno gioco di noi. Per farlo, però, serve un principio, una guida, un obiettivo alto verso cui tendere. Avviare le nostre piccole azioni, così come le riforme sostanziali di cui il paese ha bisogno, partendo dall’idea di uguaglianza.
Iniziare a convincerci che solo la ridistribuzione salverà questo paese dal fallimento economico e sociale. Ridistribuire non solo per ragioni ideologiche ma anche e soprattutto per raggiungere una maggiore efficienza del sistema-paese. Ridistribuire la tassazione da imprese e lavoro al patrimonio; ridistribuire le opportunità lavorative a livello generazionale scoraggiando i comportamenti opportunistici; ridistribuire parte di floride pensioni a lavoratori precari e disoccupati che prima o poi meriterebbero da questo paese uno straccio di opportunità. Perché seguire il principio di uguaglianza non vuol dire diventare tutti uguali, come qualcuno vorrebbe farci credere, ma essere messi tutti nella condizione di esercitare i nostri diritti di cittadinanza.
Pubblichiamo un estratto dal saggio “Chi troppo, chi niente” in questi giorni in uscita in libreria
di Emanuele Ferragina
Il Fatto Quotidiano 16.03.2013