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Renzi, i gufi e il duro mestiere dell’oppositore

renzi in parlamentoTAGLIOLE, CANGURI, SEDUTE FIUME E ORA L’INDAGINE DI PIGNATONE SUL M5S. DAI SINDACATI ALLE CAMERE: IL GOVERNO SI SECCA CON CHI NON È D’ACCORDO.

La domanda se l’è fatta ieri un sindacalista di base del Pubblico Impiego, al termine di un incontro nella sede del ministero diretto da Marianna Madia: “A quando i tavoli via Twitter?”. Cristiano Fiorentini dell’Usb condensa in sei parole la singolare concezione del dibattito e della contrattazione ai tempi del governo Renzi, che li ha liquidati con il cordiale invito a “far pervenire le loro osservazioni via email entro sette giorni”. Va detto che il germe della tracotanza deve aver da tempo valicato i confini di Palazzo Chigi, se a un gruppetto di senatori di varia provenienza è venuto in mente di fare un esposto alla Procura di Roma contro una serie di colleghi iscritti al Movimento Cinque Stelle: con le loro proteste contro il decreto Sblocca Italia, sostengono, hanno attentato agli organi costituzionali. La sproporzione è parsa grave al presidente del Senato, Pietro Grasso, che ha immediatamente fermato
i pm, visto che “l’attività posta in essere dai membri delle Camere non può formare oggetto di attività inquisitiva”. Dev’essere la retorica dei gufi che ha sortito il suo effetto. E persuaso perfino alcuni magistrati – che erano pronti a convocare testimoni per i fatti d’aula – che il Paese è invaso da “un esercito di rosiconi che tifa contro l’Italia”. Il massimo status che la narrazione renziana concede all’oppositore è quello di “professionista della tartina” o di “professorone” (Zagrebelski, Rodotà). Sotto, c’è solo da menare. Così, la dialettica, quella che era considerata una fastidiosa ma obbligatoria zavorra per chi ha oneri di governo, è diventata una pratica burocratica da sbrigare nel più breve tempo possibile. Come con i sindacati: la leader della Cgil Susanna Camusso, a ottobre, disse che l’incontro con l’esecutivo sulla legge di Stabilità era stato “surreale”: “Il governo ha iniziato dicendo: discutiamo. Poi l’incontro è finito così: mandateci delle note. Senza risposte”.
L’EQUIVALENTE PARLAMENTARE del confronto sindacale via “note” o “via email entro 7 giorni” sono la ghigliottina, i canguri e le sedute fiume con cui ci siamo abituati a familiarizzare. La seduta a oltranza fino al voto finale, per dire, è stata chiesta undici volte negli ultimi vent’anni e tre negli ultimi venti mesi (una, quella sul Dl Fare era con il governo Letta). Se lo squilibrio si può spiegare in parte con l’ingresso in Parlamento dei Cinque Stelle, che hanno fatto dell’ostruzionismo la loro cifra stilistica, dall’altro è sintomo di una modalità di rapporto con le opposizioni quantomeno sfalsato. È in una di quelle sedute fiume – era febbraio e si discuteva di riforme – che due deputati di Sel sono finiti in infermeria.
L’andazzo, dicevamo, è cominciato con il governo Letta. Fu allora che per la prima volta la presidente Laura Boldrini decise di applicare alla Camera la “ghigliottina”: in pratica, per fermare la pioggia di interventi che volevano far saltare la conversione del decreto Imu-Bankitalia, si decise una “tagliola”
che consentì l’immediato voto finale sul provvedimento. Disse la Boldrini dopo averci dormito su: “Ieri mi sono assunta una responsabilità derivante da comportamenti altrui, da rigidità contrapposte di diverso segno che hanno luposcaricato l’onere di una decisione assai difficile sulla Presidenza della Camera”. Anche quel giorno, si arrivò alle mani. Le intemperanze del questore Stefano Dambruoso sfociarono in un clamoroso pugno contro la deputata grillina Loredana Lupo.
Seppure la Boldrini, in ufficio di Presidenza, non sia mai stata tenera nei confronti di chi ha interpretato un po’
troppo fuori dalle righe il ruolo del parlamentare (numerose sospensioni dall’aula, sanzioni ai grillini che salirono sul tetto e così via), da qualche tempo ha cominciato a notare la disinvoltura con cui si muove la maggioranza. “Credo nei ruoli intermedi, associazioni, sindacati – ha detto nei giorni dell’approvazione del Jobs Act – Dunque, l’idea di avere un uomo solo al potere, contro tutti e in barba a tutto a me non piace, non mi piace”. Inutile dire che, pure lei, fu tacciata di gufismo.
MA ALMENO con la presidenza della Camera scansare il problema non si può. Diverso è il posto in commissione. Lì, Renzi non ha perso tempo quando si è trattato di far fuori l’opposizione interna al Pd in commissione Affari Costituzionali. I “dissidenti” Corradino Mineo e Vannino Chiti, che erano pronti a votare contro la riforma Boschi, sono stati agilmente sostituiti con due più allineati. E gli emendamenti firmati dal Pd Miguel Gotor scavalcati con il “canguro”. “Se io fossi sostituito con uno che vota ciecamente il testo che il governo gli mette davanti, ogni autonomia del Parlamento sarebbe distrutta”, diceva Mineo. Pazienza, direbbe Matteo. Che sarebbe pronto, stando alle indiscrezioni, a replicare la mossa anche alla Camera, dove ci sono almeno una decina di commissari democratici che vorrebbero modificare l’Italicum. Nella direzione del Pd di lunedì scorso, il premier-segretario ha già fatto sapere che non ammette defezioni. E, in linea con la nuova ditta, il renziano Matteo Richetti ha paragonato gli oppositori interni a bambini capricciosi che prima chiedono una pappa al pomodoro, poi vogliono aggiungere panna e salsiccia e alla fine pretendono che la pasta ritorni in bianco.
L’estate scorsa, la protesta delle opposizioni tutte, arrivò addirittura in corteo fuori dal Quirinale, ma Napolitano confermò l’avanti tutta. Un mese fa la scena si è ripetuta, con minor scenografia, al capezzale di Sergio Mattarella. Ma la sostanza non cambia.

Paola Zanca
Il Fatto Quotidiano 03.04.2015

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