È bastato aspettare un giorno per rivedere al ribasso gli entusiasmi del governo sull’occupazione. Solo giovedì il ministro del Lavoro Giuliano Poletti comunicava che “nei primi due mesi del 2015 sono stati attivati 79 mila contratti a tempo indeterminato in più rispetto ai primi due mesi del 2014: una crescita del 38,4 per cento”. Il tutto anticipato dal consueto Tweet del premier Matteo Renzi: “È un dato davvero sorprendente: il segnale che l’Italia riparte”, mentre pezzi sparsi della maggioranza elogiavano i meriti del Jobs Act. Ieri, però, l’Istat ha comunicato che a gennaio 2015 il fatturato dell’industria, al netto della stagionalità, è sceso dell’1,6 per cento rispetto a dicembre, e del 3,6 rispetto al mese precedente. Pochi giorni fa è toccato sempre all’Istituto di statistica ridimensionare le aspettative, certificando il tonfo della produzione (-0,7 per cento a gennaio, -2,2 su base annua). Tradotto: l’economia non si muove, anzi arranca.
COME di consueto, per oscurare i dati negativi, il governo si è mosso per pubblicarne altri positivi. Il ministero del Lavoro ha così prontamente anticipato i dati delle comunicazioni obbligatorie (quelli definitivi usciranno il 5 giugno), spiegando che nei primi due mesi dell’anno “si è registrato un aumento di 154.000 contratti rispetto allo stesso periodo del 2014, segnando una crescita del 12,6 per cento”. Con l’economia al palo, come si spiegano allora i dati sull’occupazione? Come noto, i nuovi contratti non sono frutto del Jobs Act, che è entrato in vigore solo a marzo, ma degli incentivi voluti dal governo con la legge di stabilità (possono arrivare a 8.060 euro l’anno per tre anni per chi sceglie i contratti a tempo indeterminato). Che sia la decontribuzione a spingere in su i numeri è stato certificato dieci giorni fa anche dal presidente dell’Inps Tito Boeri, che ha parlato di 76 mila aziende che ne hanno fatto richiesta, per un totale di 275 mila lavoratori. Se i numeri venissero confermati, in poco più di due mesi sarebbero state quasi prosciugate le risorse messe a disposizione dal governo per il 2015 (1,9 miliardi).
COME HA SPIEGATO LA FONDAZIONE dei consulenti del lavoro, però, solo il 20 per cento riguarda nuovi posti di lavoro, il resto sono stabilizzazioni di contratti precari per ottenere i generosi sgravi. Nessuno, infatti, può dire con certezza quanta occupazione si è creata per il semplice motivo che dati definitivi non esistono, ne sono stati comunicati. Poletti si è ben guardato dal farlo, limitandosi a un anticipazione, senza specificare quanti di quei contratti rappresentano nuovi posti di lavoro o semplici stabilizzazioni di precari. Per quelli completi bisognerà attendere due mesi.
Già a dicembre scorso, Poletti era incappato in una clamorosa gaffe anticipando i dati del terzo trimestre 2014 da cui si evinceva “un incremento dei contratti stabili del 7 per cento”, al solo scopo di oscurare il calo dell’occupazione comunicato nelle stesse ore dall’Istat. Pochi giorni dopo, è stato lo stesso ministero , comunicando i dati completi, a smentire il suo titolare: Poletti infatti faceva riferimento solo ai rapporti di lavoro “creati” (circa 400mila) senza specificare quelli nel frattempo “persi” (483.027), che avrebbero così dato un saldo negativo di oltre 81 mila unità. Come ha spiegato al Fatto l’economista Pietro Garibaldi, padre insieme a Boeri del contratto unico a tutele crescenti, senza dati certi è impossibile attribuire meriti al jobs act, tanto più che il decreto Poletti del marzo 2014 ha semplificato il ricorso ai contratti a tempo determinato.
IERI IL PREMIER HA ELOGIATO il lavoro di “stabilizzazione” messo in atto dal governo, ma il combinato disposto col decreto rischia di vanificare gli effetti una volta esauriti gli incentivi. Metà dei 150 mila nuovi contratti sbandierati ieri, infatti, non sono stabili ma precari. Il ministero, però, si è ben guardato dal farne qualsiasi menzione, puntando l’accento solo sui primi. Se poi si guarda ai dati Istat, si scopre che nel 2014 buona parte dell’incremento dei posti di lavoro (88 mila unità) è dovuto alla crescita dei contratti a tempo determinato (90 per cento) e part time (soprattutto quelli “involontari” imposti ai giovani).
di Carlo Di Foggia
Il Fatto Quotidiano 28.03.2015