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No-Triv: in Irpinia i giovani in lotta contro le trivelle

no triv_gesualdoUna terra rinata dopo il terremoto del 1980. I laureati sono tornati per puntare sullo sviluppo sostenibile ora messo in pericolo dalle ricerche di petrolio.

«Se vinciamo qui in Irpinia sarà l’inizio di una cosa pazzesca, qui si gioca una partita determinante per il Sud e per l’Italia». I ragazzi no-Triv vengono da famiglie di contadini ed ex operai disoccupati a causa d’una industrializzazione fallita, hanno girato il mondo e sanno bene che l’Irpinia, prima che arrivasse Napoli con la spazzatura in mondovisione, rappresentava il simbolo negativo di un certo Sud, perfetto da dileggiare nei bar incazzati del Nord. Era quella l’Irpinia dei trenta miliardi di euro piombati con la legge per il terremoto del 1980, le opere incompiute, il miliardo e mezzo di lire a posto di lavoro negli stabilimenti impiantati con denaro pubblico; erano gli anni Ottanta targati Dc made in Avellino, quelli di Ciriaco De Mita, king-maker della politica italiana, e della sua ghenga di irpini pigliatutto, emblemi d’una politica clientelare e vaniloquente… È in questo periodo che Gianni Agnelli dice che De Mita «è un tipico intellettuale della Magna Grecia»; replica di Indro Montanelli: «Non capisco cosa c’entri la Grecia…».

La tempesta perfetta

Ebbene, mentre la Campania va alla deriva con inquinamento, terre dei fuochi, Camorra… e mentre invece l’Irpinia, china sulla terra, si emancipa, diventa mondo a sé, grazie soprattutto ai suoi prodotti straordinari, ai Docg, Taurasi, Greco di Tufo, Fiano di Avellino, agli e olii Dop, ai formaggi, alle nocciole… proprio ora che l’Irpinia è quasi uno spot dell’Italia «Arabia Saudita» del cibo e del vino pregiati, con i giovani che tornano dalle università e dissodano campi abbandonati e aprono taverne di calitricarattere e artisti come Vinicio Capossela, il Tom Waits di Calitri, che organizzano festival internazionali di grande successo, adesso che i turisti esplorano i paesaggi struggenti di quest’isola sconosciuta incastonata tra Puglia, Basilicata e Campania, un santuario storico della civiltà rurale italica, ecco che accadono due cose in contemporanea, la tempesta perfetta: ritorna Ciriaco De Mita, sindaco di Nusco a 86 anni, con il proposito «di rifondare la Democrazia cristiana in Irpinia» – ci ha detto proprio così – e nasce il «Permesso Nusco», il piano per trivellare 54 Comuni, 128 mila abitanti interessati, 700 potenziali chilometri quadrati da bucare, cominciando da Gesualdo, a duecento metri dal castello di Carlo Gesualdo, il Michelangelo della musica rinascimentale. Si attende da Napoli solo la delibera della commissione regionale sull’impatto ambientale, ma, visto l’orientamento del governo che con il decreto Sblocca-Italia (soprannominato Sblocca-Trivelle) toglie alle Regioni il potere di veto sulla ricerca e sulla trivellazione di pozzi e vista la Strategia energetica nazionale (Sen) che intende raddoppiare entro il 2020 l’estrazione di idrocarburi in Italia (fino a 24 milioni di barili l’anno), l’esito sembra scontato.

Il richiamo della terra

no triv_gesualdo1I no-Triv non sono conformisti, non confondono l’Irpinia con il Chiapas, non sono tatuati, amano conversare, non alzano la voce, partecipano alle manifestazioni popolari della loro piccola Heimat, sono ammirati dai vecchi contadini, ascoltano musica sofisticata ma si lasciano anche tarantolare dalla taranta, leggono libri di carta, si scambiano prodotti e cibarie come fossero smeraldi e condividono le auto per risparmiare. Camillo Cefalo, 28 anni, ha studiato cooperazione internazionale, ha lavorato in Medio Oriente, in Turchia, in America Latina. Poi ha sentito delle trivelle e ha deciso «di tornare nella mia comunità». Dice che c’è un «nuovo spirito d’appartenenza rurale, né contro il progresso né con un partito». Un movimento neo-agrario? «Non parlo di movimento», dice. «Ma, come sostiene Paul Hawken, si tratta di tante piccole unità che fanno parte di un movimento che non ha bisogno di essere connotato. Condividiamo un modello di sviluppo che non è quello del consumo. Abbiamo una concezione del denaro diversa da quella dei nostri genitori e di certi nostri coetanei (uno qui si è sposato da poco e ha chiesto in dono buste di gratta e vinci da cento euro). La paura ci ha unificato». Camillo e Marco lavorano nove ettari di terra presa in concessione gratuita da un possidente illuminato: 500 ulivi, un ettaro di vigna, tre ettari di frutta, albicocche, ciliegie, 250 meli, una cucciolata di cinghiali, arnie… «Ma a noi interessano le api più che il miele», dicono, e potrebbe essere il loro slogan. «Mio padre», fa Marco, «mi racconta che nuotava al fiume. “Bè grazie tante, papà”, gli dico, “è anche colpa tua se io non posso fare altrettanto”. I nostri genitori hanno odiato la terra, noi l’amiamo più di ogni cosa».

Il «vero» oro nero

Pian piano il porticato si anima, chi distribuisce mezzelune di melone bianco, chi affetta pane e formaggio. Si stappano bottiglie di vino sincero: «Il nostro vero oro nero», dicono, perché l’Aglianico è scuro, sa di terra come se venisse dagli abissi, buono da paura. «Rischiamo la fine della Basilicata», dice Giovanni Rosato, 25 anni, tecnico specializzando in medicina nucleare e cercatore di funghi e tartufi per la sua ottima trattoria Da Nicola a Fontanarosa. Giovanni ha coinvolto nella battaglia la sua fidanzata Paola Iorillo, pianista appena diplomata al conservatorio. Soprattutto è andato spesso coast to coast in Basilicata, terra gemella dell’Irpinia, a vedere con approccio deterministico gli effetti dei 24 pozzi in val d’Agri: «Nelle acque sono state riscontrate alte concentrazioni di bromo, bario, berillio, arsenico, idrocarburi leggeri e pesanti, alluminio. In Basilicata», dice Giovanni, «c’è un aumento impressionante di casi di leucemia perforante. Ho visto la paura nelle facce dei pastori e dei contadini che vedono morire le pecore e l’erba che non cresce più. Per vendere i fagioli dicono che sono cinesi, altrimenti nessuno li compera. Nel lago Pertusillo non c’è più un pesce». «In Basilicata ci dicono: non lasciatevelo fare, non fate come noi». «L’Irpinia è un’oasi di purezza in una regione che è una fogna. A Napoli se bevono ancora acqua pulita è solo grazie all’Irpinia». E racconta che il bacino idrico dei monti Picentini è la base idrogeologica in terraferma più grande del Mediterraneo, 12.500 litri al secondo che dissetano tre regioni e quasi 6 milioni di persone.

Royalties e acqua pura

Cosa succede se nelle trivellazioni qualcosa va storto? «L’Irpinia è ancora più a rischio e vulnerabile della Basilicata », dice la geologa Albina Colella dell’Università di Potenza. «Le acque nel sottosuolo scorrono veloci in fiumi carsici, in caso di sversamenti non ci sono filtri naturali». La studiosa dice di non essere «contro il petrolio», ma diffida dei controllori «che in Italia spesso si identificano per interessi politici con i controllati». «Credo molto in questi ragazzi, sono pragmatici, si alleano con chi fa profitto con la terra, ad esempio la Zuegg che in Irpinia ha piantato molti frutteti. Oppongono profitto a profitto. E alla gente parlano di denaro, cioè di tutto il denaro che non arriverà». Perché l’esempio lucano non lascia spazio a illusioni: un bonus per la benzina di appena 140 euro l’anno, a fronte dei 90 mila barili di greggio estratti ogni giorno nella sola val d’Agri, oltre a circa 3,5 milioni di metri cubi di gas; perfettamente in linea con le modeste percentuali accordate agli enti locali, perché in Italia le royalties per le estrazioni su terraferma valgono il 10 per cento contro l’80 della Russia e il 60 dell’Alaska. In Italia, inoltre, il pagamento delle royalties decorre solo dopo le prime 20 mila tonnellate di greggio e i primi 25 milioni di metri cubi di gas estratti in terraferma: sotto quella soglia c’è l’esenzione. «Non vogliamo tornare indietro nel tempo », dice Giovanni, «ma qui possiamo vivere di tutto tranne che di petrolio. Non mi batterei contro una centrale nucleare o un treno ad alta velocità, per dire».

Rischio sismico

I migliori alleati dei no- Triv sono le 500 cantine irpine, armate di preziose bottiglie di Taurasi, il cosiddetto Barolo del Sud. In prima linea Luigi Tecce, 43 anni, vigneron di Paternopoli famoso nel mondo. I suoi ragionamenti sono affilati come daghe giapponesi: «Ce lo chiede l’Europa, dicono i leader soprattutto quando si tratta di decisioni impopolari. Bene: l’Europa ha deciso, e ne siamo contenti, di finanziare lo sviluppo rurale delle aree interne come l’Irpinia, vocate all’economia agroalimentare, a un turismo enogastronomico. Come si conciliano questi finanziamenti, questo sviluppo agricolo chiesto dall’Europa con il petrolchimico?». Il pomeriggio è silenzioso nella vigna, la bonaccia tipica della campagna del Sud, neanche una bava di vento increspa le viti, lontano le colline si estendono in un complicato gioco di verdi che dà l’idea di un territorio vasto e inesplorato. «Non siamo dei dandy di campagna», dice Tecce. «E nemmeno dei talebani. Ci sono opere impattanti ma indispensabili. Se passa la Tav fa schifo, ma non intacca la falda acquifera. E poi non so se rendo l’idea: questi vogliono trivellare in Irpinia, una delle aree più sismiche del pianeta, qui basta un solletico che la terra inarca la schiena». Il geologo Franco Ortolani, uno degli esperti «arruolati» dai ragazzi no-Triv, sostiene che dopo il 1980 si è accumulata una enorme quantità di energia tettonica tra la falda Nordafricana e quella europea e che questa bomba sta proprio sotto Gesualdo: innescarla è un attimo.

Idea di futuro

Ma Tecce dice che lo scontro è sull’idea di futuro: «Io sono un grande ammiratore di Enrico Mattei, aveva a cuore lo Stato, la Patria. L’interesse dell’Italia era il suo interesse. Cinquant’anni fa. Ma oggi l’interesse dell’Italia è il suolo, non il sottosuolo». Tecce ha paura del fatalismo che permea il carattere locale, prodotto di disinformazione e retaggi feudali: «Si sente dire, “se lo vuonno fa lo fanno”… oppure “ch’im’a fa?”. Ma quando vedranno la fiamma sul pozzo a Gesualdo piangeranno, piangeranno la loro morte».Tuttavia a Gesualdo sanno che le trivellazioni sono l’anticamera della concessione, hanno dalla loro Vittorio Sgarbi che è andato giù pesante e ha promesso di non mollare la presa, perché il castello rinascimentale del Principe di Venosa fa di Gesualdo la “Firenze dell’Irpinia” come dice il no-Triv Giovanni Venuti, 38 anni: «Il pozzo dovrebbe sorgere là, praticamente a 70 metri da quella casa giallina…», indica. Se qualcuno non esclude l’ipotesi di una protesta permanente, in piazza a Gesualdo un presidio c’è già ed è quello di Slow Food della macelleria di Mario Carrabs. Dentro, spianati come armi letali contro l’invasore, i prodotti locali, uno schieramento impressionante di leccornie: «Sarà peggio del terremoto», prevede il macellaio. «Ci trattano come un popolo sottosviluppato, abituato a ossequiare il potente», commenta una maestra che ha vissuto al Nord. «Ma stavolta si sbagliano».

Battaglia di modernità

Che fare, allora? «Siamo più enologici che ideologici », scherza Roberto De Filippis, 30 anni, laurea in scienze politiche, ristoratore de La Pergola di Gesualdo, ideatore di un docu-film, L’oro vero, che sta girando con successo per i Comuni irpini come un manifesto di questo nuovo, polifonico, movimento rurale. «Ma sia chiaro che intendiamo bloccare il permesso, impedire i carotaggi e quindi far sforare alla società i tempi previsti per legge. Poi sarebbe troppo tardi». Roberto è uno intransigente, fa capire che ha messo in conto anche scenari di tensione. Ma spiega anche che si tratta di una battaglia «di modernità, non siamo primitivisti, retrogradi. Noi siamo le Langhe del Sud. Se ci fosse petrolio sotto Alba cosa succederebbe? Pretendiamo lo stesso rispetto, si ricordino che questa è stata terra di briganti».

di Marzio G. Mian
www.corriere.it/

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