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Andate e delocalizzate: il governo vi applaudirà

GuidiL’ESEMPIO DEL MINISTRO GUIDI: LA SUA DUCATI ENERGIA, DOPO UN CONTRIBUTO PUBBLICO DI 750.000 EURO, HA APERTO UNO STABILIMENTO IN CROAZIA.

Non dev’essere un caso se il governo Renzi ha in squadra una delle più lucide teoriche della delocalizzazione, il ministro dello Sviluppo economico (dovunque si sviluppi, par di capire) Federica Guidi. Già anni fa l’imprenditrice emiliana spiegava: “Per restare competitivi dobbiamo avere un basso costo del prodotto. Quindi un basso costo della manodopera. In Italia il costo varia dai 18 ai 21 euro, in Croazia è di poco superiore ai tre, in Romania è inferiore a un euro”. Infatti la sua Ducati Energia aprì uno stabilimento in Croazia, con un contributo finanziario di circa 740 mila euro della finanziaria pubblica Simest. Bersagliata da rabbiose interrogazioni di M5S e Lega Nord, la scorsa primavera, la ministra non si scompose: “Non è una delocalizzazione ma un’operazione finalizzata a mantenere la presenza di Ducati Energia in un settore pesantemente aggredito da produttori del Far East asiatico”.ducati-energia
LE MIGLIAIA di lavoratori che stanno perdendo il posto perché il loro lavoro viene riallocato a colleghi di Paesi più competitivi sono le vittime della delocalizzazione, e hanno poco da stare allegri. Perché delle variegate accezioni negative del termine (da “carognata” a “male inevitabile”) al governo Renzi non ne piace nessuna. La delocalizzazione gli piace proprio. Non c’è caso che li commuova. Per dire, il comune di Roma mette in gara l’appalto per il call center 
060606, la società romana Almaviva che lo gestiva perde la gara e 280 addetti dipendenti il lavoro. A risultato acquisito, un mese fa, si è scoperto che il bando non prevedeva l’obbligo di assorbire il personale, ma soprattutto di svolgere il servizio a Roma. Sono notizie quotidiane, grandi e piccole. A Ferragosto ha chiuso la Bronte Jeans di Catania, gruppo tessile che produceva per grandi marchi come Benetton e Diesel, 175 posti di lavoro in fumo, altrettante assunzioni pronte a scattare in Vietnam, in Bangladesh o in Cina. I sindacalisti dei tessili siciliani hanno subito chiesto un tavolo al ministero dello Sviluppo economico, dove c’è un interlocutore credibile e informato, la Guidi appunto, che sa a memoria i minimi salariali dei cinque continenti e almeno non alimenterà vane illusioni.   Se ne vanno a frotte. Non solo la Moncler, ma anche altri storici marchi del made in Italy vanno altrove per risparmiare. Hanno delocalizzato le calze Omsa, le tute da moto Dainese, la caffettiere Bialetti, le scarpe Geox, le attrezzature da sci della Rossignol. Producono da sempre all’estero la Tod’s di Diego Della Valle e la Benetton.   Quest’ultima un anno e mezzo fa ha perso molti collaboratori nel crollo del Rana Plaza, la fabbricona tessile alla periferia di Dacca, in Bangladesh, dove sono morte 1134 persone e però 2400 circa si sono salvate. Le varie multinazionali coinvolte hanno litigato sui risarcimenti e, nessuno volendo fare la prima mossa, nessuno ha versato il pattuito. Il Bangladesh, a dispetto dei crolli delle fabbriche sulla testa di chi lavora, rimane stra-competitivo. Nonostante un recente aumento del 77 per cento, il salario dei 3,6 milioni di lavoratori tessili (quasi tutte donne) non supera i 50 euro al mese. Di fronte a tanto orrore, il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha trovato il modo di argomentare che la delocalizzazione è una mano santa se ci aiuta a evitare che il suddetto orrore entri nelle nostre fabbriche. Meglio chiuderle. Lo ha detto per celebrare il Primo maggio. Dopo aver premesso che “non bisogna pensare all’imprenditore solo come uno sfruttatore”, ha teorizzato: “Non sono disposto a far restare in Italia le imprese a ogni costo. Se hanno intenzione di danneggiare i lavoratori, territorio e ambiente possono andare altrove”.   L’idea di Poletti è la cosa più di sinistra che c’è nel governo Renzi. L’imprenditore non è uno sfruttatore ma se lo fosse, per deprecabile ed estremo caso, delocalizzi al più presto. Meglio disoccupati che sfruttati, e via di mezzo evidentemente non c’è.
IL PREMIER INVECE, non venendo dalla paludata scuola comunista di Poletti, è proprio entusiasta della delocalizzazione. In Cina, a giugno scorso, ci ha regalato impagabili perorazioni, come quella declamata a Shangai: “Chi viene ad investire all’estero non è un fuggitivo. Si è dato della delocalizzazione un significato solo negativo. Ma così si è scoraggiata l’apertura al mondo del Paese”. Le migliaia di persone che perdono il lavoro non hanno capito ciò che Renzi in Cina ha compreso con chiarezza, tanto da bollare come “polemiche stucchevoli” il lamento dei nuovi disoccupati: “Con i ricavi all’estero le aziende italiane portano business e posti di lavoro alle filiali in Italia”.   Naturalmente nessun esempio concreto è stato portato a supporto dell’ardita suggestione. Anche perché passando dal generale al particolare cambia tutto, come sa il deputato renzianissimo Michele Anzaldi, alle prese con la delocalizzazione della pasta Garofalo. Non sapendo come conciliare l’umore dei pastai presto disoccupati con quello del capo, ne è uscito con una contorsione che illumina la difficoltà dei politici di fronte ai prezzi della crisi: “Se, come ha detto il premier Matteo Renzi, non sarebbero accettabili interventi governativi di carattere nazionalistico, è invece quanto mai opportuno tutelare l’identità delle nostre produzioni”. Adesso è tutto più chiaro.

di Giorgio Meletti
Il Fatto Quotidiano 04.11.2014

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