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Renzi, l’eterno “garantismo” Ma per proteggere se stessi

scaroni-renziGIÀ D’ALEMA E VIOLANTE MINACCIAVANO I MAGISTRATI DOPO TANGENTOPOLI

Lunedì scorso, Matteo Renzi ha rilanciato, con il plauso degli opinionisti terzisti o filoberlusconiani tout court, la favola della svolta garantista del Pd. Una questione già aperta la settimana scorsa e che ha fatto coniare il nuovo termine di postgiustizialismo. Ora, un conto è uscire dal ventennio di guerra tra politica e magistrati con un inciucio tra il premier e il Condannato, un altro è dare per scontata l’etichetta giustizialista della sinistra ex Pci poi Pds e Ds, infine Pd. Dove per giustizialista si assume la definizione sprezzante data dai garantisti a chi si batte per la legalità e la questione morale nelle istituzioni.
Detto questo, Renzi non ha fatto altro che rivendicare da una posizione di grande potere, segretario del Pd e presidente del Consiglio, una linea di continuità con le maggiori correnti riformiste del ventennio della Seconda Repubblica, quella dalemiana e quella veltroniana. E continuità è il contrario di svolta. Da questa prospettiva il garantismo renziano, soprattutto per se stesso e per le inchieste che iniziano a coinvolgere i suoi fedelissimi, non è una rivoluzione. Anzi. La doppiezza togliattiana dell’ultima generazione del Pci affonda le radici già all’alba di Tangentopoli, nel marzo del ‘93. L’allora guardasigilli del governo Amato, il tecnico Conso, varò il famigerato colpo di spugna per cancellare il reato di finanziamento illecito dei partiti. Il pool di Mani Pulite andò in tv e la campagna di denuncia fu massiccia ed ebbe successo. Amato, sconfitto, si lamentò delle promesse non mantenute di D’Alema, all’epoca vicesegretario del Pds: “In privato hanno sostenuto il decreto Conso, in pubblico lo hanno sconfessato”. Ecco, i pochissimi atteggiamenti pseudo-giustizialisti di quella sinistra, quando ci sono stati, hanno sempre avuto natura tattica, per non allargare la frattura tra l’oligarchia di partito e il sentimento antiberlusconiano della base. E la decisione di candidare Di Pietro nel collegio del Mugello, nel 1997, riecheggia il via libera anche di Renzi alla decadenza di B. dal Senato nel novembre 2013, in piena campagna elettorale per le primarie dell’8 dicembre.

PER IL resto, se i Ds o il Pd avessero avuto la questione morale tra le priorità non sarebbero nati i Girotondi e Libertà e Giustizia; Di Pietro non avrebbe fondato l’Italia dei Valori e Ingroia Rivoluzione civile; il Movimento 5 Stelle non sarebbe schizzato al 25 per cento; l’Unità di Furio Colombo e Antonio Padellaro non avrebbe partorito il Fatto Quotidiano. Al di là delle indagini e dei processi che hanno investito la sinistra in questi due decenni, e che pure pesano – così come ha pesato l’ossessione del dialogo con l’ex Cavaliere – il dato decisivo è l’approccio punitivo. Oggi si aspetta che l’annuncite di Renzi dia qualche indicazione concreta sulla riforma della giustizia, ovviamente concordata con il Pregiudicato. Ma già a metà degli anni novanta, Cesare Salvi, colonna della bicamerale di Dalemoni, rivelò la natura delgarantismo del Pds: “Bisogna separare le carriere dei magistrati”. Un filo che regge fino a tutti gli anni dieci del nuovo millennio. Per stare sul tema del giorno: questo è l’aspirante giudice costituzionale Luciano Violante, favorevole anche agli scudi per le alte cariche, argomento un tempo carissimo al Condannato. Siamo nel 2008: “In Italia, l’azione penale è obbligatoria solo formalmente, ma, in realtà, è lasciata alla discrezionalità dei singoli magistrati. È giusto, quindi, affrontare il problema delle priorità nella trattazione dei processi”. E ancora: “In Italia i pm sono indipendenti dal governo e il potere politico si è progressivamente spogliato degli istituti di tutela nei confronti del potere giudiziario e non è scandaloso che ci siano forme di garanzia temporanea per alcune alte cariche istituzionali. Quindi se ne può parlare”.

DANOTARE: l’Amato del decreto Conso e il Violante a favore dei lodi ad personam potrebbero trovarsi nella Consulta insieme con il previtiano Donato Bruno. Dov’è, allora, la presunta novità garantista di Renzi? Una delle testimonianze più efficaci è di Paolo Flores d’Arcais, direttore di Micromega, che racconta una cena con D’Alema: “Era l’8 luglio 1996. Eravamo sulla terrazza di casa mia, Massimo, mia moglie Anna e io. Il governo Prodi era appena nato. Si venne subito a parlare di Di Pietro, neoministro dei Lavori pubblici, e del pool di Milano. D’Alema, molto risoluto, sentenziò che Mani pulite era stata fin dall’inizio ‘un complotto, una specie di golpe contro il Pci-Pds’. Io rimasi esterrefatto. ‘Ma come – risposi – è vero che sono stati coinvolti vari dirigenti del tuo partito, ma che mi dici di Craxi, di Forlani, dei socialisti, dei democristiani, dell’intero pentapartito?’. D’Alema insisteva, non sentiva ragioni”. Ergo non solo la sinistra non è mai stata giustizialista, ma per il suo esponente più carismatico il giustizialismo nacque contro il Pci-Pds.

di Fabrizio D’Esposito
Il Fatto Quotidiano 18.09.2014

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