Ricordate le armi ai curdi? La settimana scorsa gli annunci tonitruanti del governo e dei giornaloni al seguito ci avevano quasi convinti che fossero partite per il Kurdistan iracheno. Le ministre Pinotti e Mogherini avevano interrotto le ferie di un centinaio di parlamentari, peraltro ignari dell’esistenza del Kurdistan, per deportarli nelle commissioni Difesa ed Esteri e comunicare al mondo che il Califfato aveva le ore contate: l’Italia, nota superpotenza militare, stava inviando ai nemici del califfo al-Baghdadi alcuni aerei cargo stracolmi di kalashnikov, razzi katiuscia e missili anticarro “perfettamente funzionanti” (parola della Pinotti, che li aveva personalmente oliati e collaudati al poligono di tiro di Arma di Taggia). Si tratta, com’è noto, di vecchie ferraglie di fabbricazione sovietica (anni 70), sequestrate vent’anni fa dalla Procura di Torino a miliziani croati e destinate alla distruzione per ordine dei giudici, ovviamente disatteso dai nostri governi che le tennero ad arrugginire nei magazzini, senza che nessuno le usasse, nemmeno il nostro scalcinato esercito. Lo stesso giorno Renzi si recava sul posto, prima a Baghdad poi a Erbil e, nella migliore tradizione italiana, prendeva impegni contraddittori per non scontentare nessuno: al premier iracheno prometteva di rispettare la sovranità nazionale del Paese, cioè di inviare le armi al governo legittimo (si fa per dire); poi rassicurava i capi curdi, ansiosi di riceverle nelle proprie mani. Ieri abbiamo chiesto se il formidabile arsenale abbia poi preso il volo, e in quel caso per dove. Risposta: tutto fermo. Non che le sorti della guerra ne risentano, anzi: finché i curdi non le vedono, ci risparmiamo il rischio che ci rispediscano indietro le armi e ci dichiarino guerra per lo sfregio. Ma la partita si fa avvincente, perché qualunque decisione prendano le nostre Sturmtruppen sarà un disastro: se spediamo le armi ai curdi, il governo di Baghdad – teoricamente nostro alleato – s’incazza, mal sopportando l’indipendentismo di quel popolo; se le spediamo alle autorità irachene perché le girino ai curdi, è difficile che queste lo facciano, per non favorire la disgregazione del Paese, così s’incazzano i curdi, teoricamente nostri alleati. Par di vederli, i nostri strateghi, riuniti davanti al Monopoli per uscire dal vicolo stretto. Idea: mandiamo metà armi a Baghdad e metà al Kurdistan. Anzi no, spediamo fucili, razzi e missili ai curdi e le munizioni agli iracheni. Meglio ancora: paracadutiamo il tutto nel deserto, e il primo che arriva prende tutto, come al gioco del fazzoletto. C’è poi l’eventualità che, ammesso e non concesso che le armai arrivino e funzionino, i curdi le cedano agli attuali alleati sciiti, che oggi sono amici nostri in funzione anti-Isis, ma domani potrebbero diventare nemici e costringerci a una nuova missione di pace, cioè di guerra, per levargli le nostre armi. Anche in politica estera, insomma, la rottamazione tarda ad arrivare. Nell’attesa ci si barcamena con i doppigiochi di sempre: quelli della solita Italietta che non è mai riuscita a terminare una guerra dalla stessa parte in cui l’aveva iniziata. Si parte con un alleato, poi si vede come butta e se marca male si passa al nemico per partecipare alla festa sul carro del vincitore. Fu così nelle due guerre mondiali, ma anche nella Prima Repubblica: l’Italia stava con la Nato, ma anche con Mosca (Andreotti la Germania la preferiva divisa in due); con Israele, ma anche con i terroristi palestinesi che volevano annientarlo; con l’Inghilterra, ma anche con i generali argentini che occupavano le Falkland. Quando Reagan bombardò Gheddafi per farla finita con i fondi libici all’internazionale del terrore, avvertì Craxi e Andreotti che corsero ad avvertire il colonnello per farlo scappare. Poi venne Berlusconi, che stava con tutti e col contrario di tutti: con Bush, ma anche con Putin, ma anche con Gheddafi. Che poi il governo B. contribuì a bombardare, ma solo un po’ (“non lo chiamo per non disturbarlo”), e a far massacrare da quegli stessi ribelli che ora sono nostri nemici. Passano le ere geologiche, ma resta inevasa una domanda di Otto von Bismarck: “Sapete per caso con chi stanno oggi gli italiani?”.
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