Così come la distruzione del pianeta da parte dell’uomo è avvenuta soprattutto negli ultimi cinquanta-sessant’anni, con un’accelerazione spasmodica delle attività distruttive dovuta all’industrializzazione e poi al consumismo e alla globalizzazione, allo stesso modo la distruzione dell’animo umano, la degenerazione psichica e culturale hanno avuto un’accelerazione incontrollabile nelle ultime generazioni. Dovute agli stessi motivi.
Mentre si distrugge la natura e ci si allontana da essa, ci si distrugge: l’uomo è natura, come tutti gli altri esseri viventi. L’inquinamento di aria, acqua e suolo mina la salute fisica, una società e una vita quotidiana sempre più artificiali deteriorano la mente e i sentimenti.
Sono le ultime generazioni a pagare più delle altre lo scotto per l’inquinamento materiale, poiché lo subiscono fin dalla nascita e dalla prima infanzia e sono sempre le ultime generazioni a subire, più di tutte quelle che le hanno precedute, la deformazione dello spirito e della mente: perché non hanno avuto esperienza, e quindi non hanno memoria, di un mondo dove i rapporti tra gli esseri umani avevano ancora qualcosa di naturale, solidale e comunitario; né di un mondo dove il rapporto tra gli umani e la natura era ancora considerato essenziale e vissuto in modo semplice e non competitivo.
I bambini e i giovani di oggi, come memorie ed esperienze infantili, hanno i videogiochi, le lavagne interattive sulle quali non si scrive e non si impara (…Lo spostamento di un contenuto con un gesto dimostrativo identico per ogni contenuto, non ne consente l’acquisizione… Proprio perché il computer evita agli studenti buona parte del lavoro mentale, esercita un effetto negativo… – Manfred Spitzer “Demenza digitale” ), i cellulari e i tablet con i quali si cammina fissando uno schermo e non vedendo ciò che ci circonda e non parlando con chi ci sta intorno, gli i-pad con cui non si sentono i rumori della vita e si ascolta una musica che gli altri non sentono.
Avranno un addestramento all’isolamento che nemmeno i carcerati in regime di 41bis, un tirocinio alla demenza che non lascerà loro scampo: efficace, pervasivo, precocissimo. Ci sono i cartoni animati per i neonati, i finti cellulari per chi ancora non coordina i movimenti delle dita e inventeranno altro. Ci sono paesi dove si comincia a far usare il computer nella scuola dell’infanzia, cioè quando i bimbetti traballano sulle gambe e più che parlare farfugliano. Senza ancora conoscere il mondo reale, vengono tuffati nel mondo “virtuale” e lì sprofonderanno per non venirne più fuori.
E ci sono quelli già “sprofondati”. In Germania i centri di cura per il recupero delle dipendenze da internet e simili hanno cominciato ad essere aperti fin dal 2003. E poi è stato un crescendo in tutto il mondo: il governo cinese stima che il 13% degli adolescenti sia digital-dipendente, così come lo sono il 18% degli studenti britannici, l’11% dei giovani sudcoreani; nel 2009 negli USA si apre il primo ospedale dedicato unicamente alla cura della dipendenza digitale, e nel 2009 si apre un reparto analogo al policlinico Gemelli di Roma. E quando si parla di “dipendenza” non si usa un eufemismo: i sintomi sono molto simili a quelli delle tossicodipendenze, le conseguenze si assomigliano. Con la differenza che la loro “droga” questi giovani e bambini la possono trovare facilmente, gratuitamente, legalmente nella loro stessa casa, nella loro stessa scuola.
Quello che non mancherà, agli zombie-robot in erba, sarà una forte carica competitiva, una buona dose di aggressività indefinita (la maggior parte dei videogiochi e dei cartoni animati sono violenti e una ragione ci sarà; senza contare la violenza sparsa a piene mani nella maggior parte dei film e programmi televisivi e, dato che nel modo in cui oggi si vive, la televisione è la prima famiglia e comunità a cui i pargoli sono indotti a far riferimento), accompagnata, e non è una contraddizione, da una passività completa nei confronti della “autorità”: economica, politica, scientifica. La perdita di autonomia psicologica, di esperienza autonoma, di autonoma iniziativa e di spirito critico conduce a questo. Anche la scuola attuale conduce a questo, con il suo carico sempre maggiore di lavoro, privo spesso di valore culturale ed educativo, inadatto a sollecitare la curiosità, l’inventiva, la fantasia, la collaborazione, ma adattissimo a selezionare i più competitivi, i più acritici, i più inconsapevolmente servili, i più frustrati: o a farli diventare tali. Una società basata sul dominio ha bisogno di servi e dominatori, ogni dominatore deve saper essere servo di chi gli sta sopra: i due ruoli si accompagnano e sovrappongono inevitabilmente ed, essendo ambedue innaturali, richiedono molta “cultura”. Forse per questo il PROGRAMMA SCOLASTICO è diventato così importante.
La scuola e gli insegnanti corrono per attuare il Programma Scolastico ma nessuno sa davvero come, chi, perché abbia scelto il Programma Scolastico, nessuno sa bene cosa sia, in cosa consista, che scopi abbia e nessuno può metterci becco, tantomeno genitori e famigliari. Né del resto sembrano volerlo: il Programma Scolastico è una divinità suprema, alla quale bisogna credere, obbedire e per la quale combattere, cominciando dagli insegnanti per finire con i bambini di sei anni.
Così i ragazzi di oggi nella società di oggi crescono senza imparare quasi niente di ciò che è utile per la vita, né moralmente né materialmente: non sanno attaccarsi un bottone né far fronte agli imprevisti; non sono capaci di cucinare e lavare i piatti né di immedesimarsi nelle altrui gioie o pene.
Ma oggi è assodato e accettato da (quasi) tutti che la scuola sia un bene in sé, che l’istruzione data dallo Stato sia un bene in sé. Indipendentemente da che tipo di Stato si tratti. Come se la scuola fosse qualcosa di trascendentale e di neutro.
Fino a un’epoca molto recente, la scuola era il privilegio delle classi dominanti. Il luogo dove si addestrava a dominare. Per questo bisognava che i bambini futuri dominatori considerassero naturale e benefico il dominio e a questo pensava la scuola, poi bisognava che fossero messi in grado di esercitarlo. I bambini futuri dominatori venivano educati con la disciplina e con la sferza, perché per essere feroci bisogna prima aver subito la ferocia.
La scuola dell’obbligo nasce con l’industrializzazione, quando diventa necessario addestrare anche i dominati, in questo caso le classi subalterne. Bisogna addestrare i figli dei contadini a diventare operai. Bisogna diventare meccanici e tornitori, tipografi e muratori, operaie tessili e commesse. La scuola di Stato, cioè la scuola di chi ha il potere nello Stato, diventa un obbligo. E un bene.
Così come la tecnologia digitale nasce quando la grande industria ha bisogno di risparmiare sulla manodopera, di diventare globale e multinazionale e quindi di comunicazioni veloci ed economiche (in “tempo reale”) tra tutte le sue componenti (filiali, uffici, dirigenti locali, clienti e fornitori, governi ecc.) in tutto il mondo, e di controllare in maniera capillare, pervasiva e totale la società: dalle carte di credito agli spostamenti, dalle telefonate alle merci acquistate, “dalla culla alla tomba” e in mezzo ci sta anche il voto elettronico.
E allora, negli ultimi tempi di dominio globale del capitalismo, cioè dell’ultimo impero in ordine di tempo, anche l’istruzione-competizione deve diventare globale, cioè non deve lasciare più alcuno spazio di esperienza autonoma e di educazione comunitaria ai bambini e ai ragazzi: le nuove generazioni devono essere addestrate a lavori molteplici e flessibili, devono essere educate e costrette all’isolamento individuale, devono essere educate a consumare acriticamente e maniacalmente qualsiasi prodotto l’industria globale proponga.
Eppure, e nonostante tutto, c’è una bella luce gagliarda nella tenebra educativa di una società decadente e in decomposizione: aumentano vertiginosamente le iscrizioni alle scuole “alternative”: montessoriane, steineriane, libertarie; e aumentano le “scuole a casa”, cioè i genitori che decidono di istruire ed educare autonomamente i loro bambini, senza mandarli a scuola. Evidentemente c’è in molti un sano, irriducibile istinto che ci ancora alla natura e alla “nostra” natura.
Tutte queste scuole educano al senso critico, al rispetto reciproco, alla collaborazione; insegnano a fare con le mani, a ragionare con la propria testa, a non accettare supinamente ciò che viene imposto dall’alto; non costringono, non reprimono, non soffocano la fantasia e la curiosità, non mortificano gli impulsi gioiosi dell’infanzia ma educano alla discussione e all’ascolto, alla tolleranza e alla dignità. Educano alla responsabilità individuale e collettiva.
“Il nostro obiettivo è elaborare una pedagogia che insegni ad apprendere per tutta la vita dalla vita stessa”, dicono le scuole steineriane; parlano di accogliere, comprendere, riflettere; di attività motorie perché i bambini sono corpi e anime e ambedue devono svilupparsi armoniosamente.
“Ogni bambino, seguendo il proprio disegno interiore di sviluppo e i suoi istinti-guida, accende naturalmente il proprio interesse ad apprendere, lavorare, costruire, portare a termine le attività iniziate, sperimentando le proprie forze, misurandole, controllandole… suscitando gioia ed entusiasmo” dicono le scuole Montessori.
“L’educazione libertaria riconosce ai bambini la capacità di decidere individualmente e in gruppo come, quando, cosa e con chi imparare” dicono le scuole libertarie, e parlano di sviluppo di ogni talento e capacità della persona nella sua interezza, mente e corpo. “Ecologia, empatia, rispetto, comprensione, libertà” dice Scuola di Paglia, una scuola libertaria pugliese.
E’ così evidente la differenza con quello che magnificano e propongono le scuole “normali”, statali e non: la differenza è il rispetto e il valore del bambino; la differenza è la considerazione e il valore che si dà al legame tra il bambino e il mondo che lo circonda, il mondo della famiglia, della comunità, della natura.
Da una parte la scuola è considerata alla stregua di una merce da vendere, se privata, o da rifilare ai genitori: conta la quantità, più ore si fanno a scuola e meglio è, se non ci si può permettere la “qualità” (e la qualità, oltre alle tante ore, deve dare un surplus di competizione e tante lingue straniere fin dalla prima infanzia, in primis naturalmente l’inglese, oltre a tanta tecnica digitale fin dalla prima infanzia). Il bambino deve essere “allenato” come un atleta da olimpiadi, perché si deve preparare a gareggiare e vincere.
Le scuole “alternative” parlano un’altra lingua. Non vantano le possibilità di attrezzature particolari o discipline “all’avanguardia”. Vantano l’obiettivo di sviluppare anime e corpi, aiutando i bambini a comprendere e a godere la vita, a viverla in comunità rispettose ed unite. Vantano l’attenzione, il “chinarsi” sul bambino invece di sovrastarlo, l’ascolto. Vantano un’educazione e un’istruzione che parte dal bambino, dalle sue qualità peculiari, dalle sue esigenze infantili, e che le intreccia con quelle dei suoi compagni e con la vita tutta.
E’ chiaro che le scuole “alternative” sono adatte ad un’altra società, alternativa a quella attuale. E, per realizzarla, non possiamo prescindere dall’educazione dei nostri bambini e dalla loro felicità.
La prima Alba ha trovato un bambino,
laggiù verso est l’ha trovato.
Quando l’ha trovato gli ha parlato.
Egli sorride,
pronto alla vita,
ha una voce forte e allegra.
E’ un bimbo luminoso,
colmo di pace.
(Canto Navajo)