Uno spettro aleggia sulla scena politica da domenica sera: si chiama “antirenzismo”. Ai ballottaggi nei 18 comuni capoluogo e in altri grossi centri, il Pd c’era quasi sempre, ora contro il centrodestra ora contro i 5Stelle. Ma la metà delle volte ha perso: perché le due opposizioni hanno fatto massa contro un unico obiettivo. Che non è tanto il Pd, ormai ridotto a bivacco di ridicoli. Ma Matteo Renzi. In 70 anni di storia repubblicana solo altri tre premier si erano attirati nell’opinione pubblica un’ondata di antipatizzanti paragonabile a quella che si è coagulata contro Renzi: Fanfani, Craxi e Berlusconi.
Tre leader ai quali Matteo dichiaratamente si ispira o comunque per certi versi somiglia. Chiacchierone, toscanaccio e spavaldo come Amintore; protervo, sbruffone e un po’ ducesco come Bettino; autoritario, bugiardo e piacione come Silvio. Di questa tipologia umana e politica, Montanelli diceva nel 1983 parlando di Craxi: “Ha una spiccata – e funesta – propensione a considerare nemici tutti coloro che non si rassegnano a fargli da servitori. Sono pochi, intendiamoci, i politici immuni da questo vizio. Ma alcuni di essi sanno almeno mascherarlo. Craxi è di quelli che l’ostentano sino a esporsi all’accusa di ‘culto della personalità’: ‘un culto’… che potrebbe procurargli guai seri. Non perché a noi italiani certi atteggiamenti dispiacciano, anzi. Ma perché in fatto di guappi siamo diventati, dopo Mussolini, molto più esigenti: quelli di cartone li annusiamo subito”. Un ritratto che si attaglia a perfezione anche a Fanfani, protagonista di rovinose cadute e prodigiose risalite (il Rieccolo o il Misirizzi, lo chiamava il vecchio Indro), a Berlusconi e a Renzi. Con la differenza che, per disamorarsi di Craxi, gl’italiani impiegarono dieci anni, per averne abbastanza di Berlusconi ne fecero passare venti, e le prime falle nel cargo del vincitore renziano si aprono dopo appena un anno e mezzo. Ma ciò che dovrebbe allarmarlo di più non è il calo fisiologico di consensi del suo partito e del suo governo, che hanno scontentato molti e accontentato pochi. È la comparsa di quell’“ismo”, preceduto dal prefisso “anti”, che porta in mezzo il suo nome. Un fenomeno tipico dei capi e capetti che suscitano grandi simpatie, ma anche specularmente fortissime antipatie: Fanfani fu accusato di “fanfascismo”; Craxi di giocare anche fisiognomicamente al piccolo duce con il presidenzialismo, la pelata, la mascella volitiva e l’assonanza Bettino-Benito; Berlusconi e Renzi di attentare alla Costituzione con le loro controriforme tendenzialmente autoritarie. Il piglio bullesco a molti piace, ma almeno altrettanti spaventa.
Infatti Renzi, da aspirante leader del Partito della Nazione, ha impiegato poco tempo a diventare “divisivo”. E l’Italia non l’ha spaccata in due sull’asse destra-sinistra, ma sull’asse pro o contro Renzi. E i contro sono molti più dei pro: la sinistra tradizionale, un bel po’ di elettori del Pd, i 5Stelle, la galassia destrista e i rimasugli centristi. Il sogno di svuotare le ali estreme e di piazzarsi al centro con un gran sugherone galleggiante tipo Balena Bianca, che pesca dappertutto lasciando le briciole agli altri, sembra già svanito: l’elettorato, riottoso a farsi rieducare da lui, si ripresenta pressoché identico a quello tripolare uscito dalle elezioni del 2013, quando la Ditta era in mano ai Bersani e Letta. Un terzo abbondante al centrosinistra, un terzo scarso ai 5Stelle, un terzo esatto al centrodestra. Se Fanfani, Craxi e Berlusconi vivevano comunque di rendita grazie all’assetto bipolare (chi non li voleva aveva una sola alternativa: il Pci-Pds-Ds-Pd, in un reciproco gioco a “turarsi il naso” per scegliere il male minore), Renzi ha un problema in più: chi non vuole Salvini e quel che resta di B. non ha la sola alternativa di turarsi il naso e votare Renzi “a prescindere”, dopo aver digerito la qualunque pur di risparmiarsi il Caimano.
Ne ha anche un’altra: i 5Stelle che, sempre più affrancati dal tutoraggio di Grillo & Casaleggio, esibiscono figure (un esempio per tutti: Di Maio) in grado di rassicurare gli elettori “moderati” più di quanto non facciano i titolari del marchio centrista. Abbiamo provato la destra, abbiamo provato la sinistra, abbiamo provato il centro, abbiamo provato i tecnici, perché non provare anche i tanto vituperati “grillini”? Non solo: se a ogni renziano corrispondono due antirenziani (almeno tra chi ancora partecipa e vota), il sistema dei ballottaggi – dove si vota contro, più che pro, senza alleanze né contaminazioni – è il peggio che possa capitare al premier, stretto nella morsa delle due opposizioni: al secondo turno, se il candidato anti-Pd è un 5Stelle, il centrodestra escluso confluisce su di lui; e se è uno di centrodestra, i pentastellati esclusi o stanno a casa o lo sostengono contro l’uomo Pd. Renzi non può dirlo, ma se l’Italicum lo scrivesse ora, tutto farebbe fuorché riproporre il ballottaggio fra le due liste più votate: perché, se si votasse domani, il Pd vincerebbe al primo turno, ma al secondo rischierebbe di essere stritolato nella morsa degli elettori di Grillo, Salvini, Berlusconi, Meloni ecc. Lunedì, riconoscendo la legnata che dai cieli di Superman l’ha riportato sulla terraferma, Renzi pareva aver capito la lezione. Poi però se n’è subito pentito e ha ripreso a sproloquiare: i candidati sconfitti non li ho scelti io, abbiamo perso per colpa del Renzi 2 che ha mediato troppo, ma ora torna il Renzi 1 che si prende finalmente il partito e fa le riforme col turbo senz’ascoltare nessuno. Quindi non è mai colpa sua: il Renzi vero è il Renzi 1, che incolpa il Renzi 2, che prima o poi scaricherà tutto sul Renzi 3. Un po’ come il fantomatico Piano B sull’immigrazione, che salta a pie’ pari il Piano A (sconosciuto ai più) e consiste nell’avere un Piano C.
Marco Travaglio
Il Fatto Quotidiano 17.06.2015