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Demitare sulla “trattativa”

de mitaIeri è stata una delle giornate più paradigmatiche del processo sulla trattativa stato-mafia: al banco dei testimoni si è seduto Ciriaco De Mita, uomo bifronte in politica dagli anni ’60 e tra il 1982 e il 1989 segretario della Democrazia Cristiana, persino Presidente del Consiglio tra il 1988 e il 1989, più volte ministro poi europarlamentare e oggi sindaco di Nusco (Avellino), suo comune di nascita. De Mita è la prova vivente (e iconografica) di una certa classe dirigente che ha tenuto (e tiene?) in mano questo Paese. Ma non è questo il punto: ieri De Mita ha inscenato uno dei suoi numeri peggiori della sua lunga carriera eludendo le domande con una sfrontatezza putrida che ricorda così tanto da vicino la vergognosa smemoratezza difensiva dell’Andreotti dei giorni peggiori. “Non ricordo… anzi non è che non ricordo… è che non ho partecipato”, “non potete farmi queste domande” ha demitato De Mita, fino alla sua risposta sulla strage di Capaci in cui perse la vita Giovanni Falcone, sua moglie e la sua scorta su cui De Mita ricorda solamente che avvenne d’estate (ha detto proprio così) e che “circa una anno dopo” venne ucciso Borsellino (ha detto proprio così) cancellando in un colpo solo quei cinquantasette giorni che separano i due attentati e che (guarda caso) sono tra gli snodi fondamentali di questo processo.

“Demitare” insomma è il giusto verbo per indicare questo non rispondere alle domande da parte delle nostre cariche istituzionale aggiungendoci un po’ di presa per il culo. E noi qui, a celebrare Falcone e Borsellino permettendo a Mancino, De Mita e tutti gli altri di demitare noi e pure loro.

di Giulio Cavalli
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