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Renxit?

renxitNon ci si crede, ma è successo davvero. Lunedì, mentre gli italiani attendevano dal loro premier una parola chiara (una qualsiasi) sul referendum greco, qualcosa in più dei soliti gargarismi sull’Europa che deve cambiare verso dall’austerità alla crescita, Matteo Renzi era impegnato in una lezione di telegenia nella sede del Pd in largo del Nazareno. La scena fa il paio con la foto, non rubata da un paparazzo gufo, ma diffusa dal suo portavoce, che lo ritraeva intento a giocare alla Playstation la notte delle amministrative. E con la fuga in Afghanistan l’indomani. E con la supercazzola brematurata del Piano B sull’immigrazione (ovviamente segreto, infatti dopo un mese risulta tuttora ignoto al suo stesso inventore).

E con la supercazzola bitumata sul Renzi-2 che ripassa al Renzi-1, incomprensibile anche ai migliori psichiatri. La verità è che, da quando ha perso le prime elezioni della sua vita, seguite da sondaggi sempre più deprimenti, il premier pare un pugile suonato. Non azzecca più una mossa neppure nella propaganda, che è sempre stata il suo forte.

È vero che, come Berlusconi, Matteo è un tipo più da Carnevale che da Quaresima: quando il tempo volge al brutto, preferisce rintanarsi in casa piuttosto che ammettere che piove. Ma stavolta ha fatto di peggio. La scorsa settimana, alla vigilia del referendum in Grecia, aveva tre opzioni: schierarsi col Sì, assieme a Junker, Merkel e perfino Schulz; buttarsi sul No, assieme a Tsipras e alla sua variopinta Tsipras_syrizabrigata di supporter italiani; starsene zitto e buono in attesa del risultato e poi proporsi come mediatore. Ha scelto la peggiore: puntare tutto sul Sì, fino twittare un demenziale aut-aut fra euro e dracma e a farsi riprendere a Berlino in grembo alla Merkel, che lui chiamava “Angela”, manco fossero compagnucci della parrocchietta ai tempi degli scout, mentre lei teneva le distanze appellandolo “il premier Renzi”.

Quando poi ha vinto il No, s’è di nuovo inabissato. Non potendo tornare in Afghanistan, col caldo che fa, ha mandato avanti i retroscenisti di corte a raccontare che tutti lo vogliono mediatore ma lui non si concede a nessuno, che Tsipras lo stalkera giorno e notte, e che l’Europa pende dalle sue labbra, ma lui ha altro da fare (un vertice con Padoan in videoconferenza con Lotti). Intanto la Merkel incontrava Hollande senza manco chiamarlo a portare i caffè. E lui inscenava la sua lezioncina di comunicazione.

Titolo: “Dal catenaccio al tiki-taka”. E slide col gufo e la scritta “I nostri avversari sperano nel fallimento dell’Italia. Il loro nido è il talk show, non il Parlamento”. Come se lui stazionasse in permanenza fra Camera e Senato (dove non lo vedono quasi mai: tanto lì si votano solo le fiducie ai suoi decreti) e non svolazzasse da Vespa a Del Debbio, da Porro alla Barra, dalla De Filippi alla D’Urso. “Il catenaccio non funziona”, ha spiegato ai discepoli il noto erede di Packard e McLuhan, ma pure di Guardiola: “Dobbiamo cambiare schema, partire all’attacco e tenere il possesso di palla, stando attenti Barbara D'Urso, tra Renzi e me rapporto di stimaa non cadere nelle provocazioni e puntando diritti alla porta avversaria”. Che è poi quel che diceva B. nei provini di Arcore, dove saggiava i suoi candidati e scartava chi portava la barba, o non rideva alle sue barzellette o, soprattutto, parlava di contenuti (“L’italiano medio è un ragazzo di seconda media non troppo intelligente che nemmeno siede al primo banco: è a loro che dobbiamo parlare”).

Anche Matteo, che pure è diventato Renzi con proposte concrete e innovative, s’è ormai convinto che non conta ciò che si dice, ma come. E vince chi dice benissimo il nulla che ha da dire. Infatti, scaricati rapidamente i pochi collaboratori validi (gli facevano ombra), si circonda di mezze nullità che vengono bene in foto, anzi in selfie, e bucano il video. O almeno così crede lui.

La lista dei pidini “performanti” promossi per diffondere il verbo renziano fa cadere le braccia, e anche altre parti del corpo che non stiamo a dettagliare. Fra gli altri, il barbudo Carbone che ha sempre l’aria di un posteggiatore abusivo, specialista dell’insultolibero; laPicierno, protagonista di gaffe memorabili (tipo lo scontrino sventolato a Ballaròper dimostrare che lei con 80 euro fa la spesa per due settimane, senza precisare che è per il suo canarino); Taddei, il consulente economico che, dislessia a parte, s’imbarca in elucubrazioni accademiche e poi si offende a ogni minimo rilievo come se gli avessero toccato la mamma; Rosato, il neocapogruppo che ha la verve di un lavabo e il sense of humour di un paracarro; e Scalfarotto, quello che sta digiunando contro chi non riconosce le coppie di fatto: cioè il partito di cui era vicepresidente e il governo di cui è sottosegretario (e per le Riforme). Sul podio c’è la Serracchiani, che in tv si muove bene, anche se la mutria istituzional-governativa non le giova. E nell’empireo, sopra tutto e tutti, la Boschi, che non si può neppur nominare.

Ma è sicuro Renzi che il problema del Pd sia chi e come comunica, e non che cosa? “Impariamo a vendere i nostri prodot ti”, ha intimato ai suoi. A parte il lessico di piazzista da fiera del bue grasso, conosce qualcuno che riuscirebbe a vendere l’Italicum, il Senato dei consiglieri regionali, il Jobs Act, la Buonasquola, le supercazzole sull’Europa e le giravolte sulla Grecia? Si metta nei panni di quei poveri forzati del tutto va ben madama la marchesa. Già sono quel che sono: se poi devono pure piazzare merce avariata, chi se la compra?

Marco Travaglio
Il Fatto Quotidiano 09.07.2015

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