L’OBIETTIVO È IL PAREGGIO DI BILANCIO: DAL 2016 SALGONO IVA E BENZINA, GIÙ LE DETRAZIONI. CERTO SI PUÒ ANCHE TAGLIARE ANCORA, MA I COMUNI GIÀ AVVERTONO: “SIAMO AL DISSESTO”.
Ventisette miliardi di tasse nascoste, rimandate a domani per non ammetterne l’esistenza oggi. Questa è la scommessa di Matteo Renzi, quella che innerva la sua legge di Stabilità elettorale, il motivo per cui tutti nel palazzo si sono convinti che il voto a primavera è inevitabile. Funziona così: il nostro deficit deve andare a zero entro il 2017, è il famoso pareggio di bilancio inserito in Costituzione ai tempi di Mario Monti anche da quelli che oggi lo contestano e sottoscritto dai governi italiani nei Patti stipulati in Europa. Come lo facciamo? Ma con la spending review, ovviamente. Solo che al momento la revisione della spesa è una bufala e i tagli quasi interamente lineari di Renzi e Padoan sul 2015 lo dimostrano: ieri, per dire, i Comuni e le nuove province sono andati a chiarire a Palazzo Chigi che così muoiono i servizi ai cittadini (scuola, trasporto, strade, sociale, verde e quant’altro) e molte città rischiano comunque il dissesto.
HA SPIEGATO Piero Fassino: “La Stabilità ci taglia 1,2 miliardi, a cui si aggiungono i 2,2 miliardi del fondo per i crediti deteriorati e 300 milioni eredità di precedenti manovre”. Fa 3,7 miliardi che vengono compensati, secondo il governo, dallo sblocco del Patto di Stabilità interno per 3,2 miliardi: soldi che pochi comuni hanno, comunque, e non possono essere usati per la spesa corrente (cioè i servizi). La risposta di Renzi è stata: “Discutiamo del come, ma l’entità del taglio resta quella che è”. Non è finita: a province e città metropolitane si toglie un miliardo e mezzo; alle regioni complessivamente altri 6,2 miliardi. Persino un renziano come il governatore del Piemonte Sergio Chiamparino ha perso il lume della ragione. Pure i fondi per gli investimenti nelle aree depresse finiscono nella spending review: tre e mezzo finiranno per pagare forme di detassazione alle imprese, 500 milioni sono parte della “tassa Kaitanen” per ridurre il deficit al 2,6% nel 2015.
Il problema è che i 10 miliardi scarsi di tagli del Renzi di quest’anno (accompagnati da parecchie partite di giro sulle tasse) non sono che l’antipasto: dentro la manovra, che ha un orizzonte temporale di tre anni, è infatti previsto un “consolidamento del bilancio” – cioè tagli di spesa o nuove tasse – per 27 miliardi di euro al 2017. Un impegno vago, si dirà, che il nostro giovane e vigoroso premier provvederà a ricontrattare con l’Europa. Nient’affatto. Si tratta di un fatto già assodato e inserito nella legge di Stabilità con apposite norme di legge. Prendiamo l’Iva, che è il caso più grave: nella manovra c’è scritto che l’imposta sul valore aggiunto salirà il 1 gennaio 2016 di due punti percentuali per le prime due aliquote (dal 10 al 12%, dal 22 al 24%) e di un altro punto dal 1 gennaio 2017 (al 13 e al 25%). Poi, per chi fosse ancora vivo, a gennaio 2018 un altro mezzo punto sull’aliquota principale, che arriverà alla stratosferica cifra del 25,5%. Il valore della faccenda è quotato in 12,8 miliardi nel 2016 e 19,2 l’anno dopo.
AD ARRIVARE a venti, cifra tonda, ci pensano le accise: sempre nel 2018 aumenteranno benzina e gasolio per non meno di 700 milioni l’anno. Anche con questo, comunque, le mine piazzate da Renzi e soci nel bilancio dello Stato sono finite : un’altra norma eredità del governo Letta, prevede a partire sempre dal 2016 un bel taglio di detrazioni, deduzioni e agevolazioni fiscali. Tecnicamente non è un aumento di tasse, ma in pratica si pagheranno più tasse. Il menu nel dettaglio lo si deciderà in seguito, ma nulla è escluso: dalle spese mediche a quelle per i figli, dalle detrazioni per il lavoro a quelle sulle donazioni dalle agevolazioni per il no profit a quelle sull’Imu, tutto potrà contribuire al risultato finale, che sono altri 4 miliardi di risparmi nel 2016 e 7 a regime dall’anno successivo. Impegni, si dirà, non presi da Matteo Renzi e nemmeno da Pier Carlo Padoan, ma nemmeno spiegati agli italiani nella mitopoiesi del #cambiaverso con cui il giovane premier racconta l’Italia al suo pubblico, un tempo uso ai diritti di cittadinanza. Il verso è sempre lo stesso, la discesa, c’è solo stato un eccezionale rallentamento della corsa nel 2015, al termine del quale però c’è il baratro.
Il governo, ad esempio, ha usato il salvadanaio dei risparmi da minore spread, ma contemporaneamente prevede – sempre nella legge di Stabilità – di chiedere ai mercati finanziari 900 miliardi in tre anni: dovessero risalire i rendimenti (oggi a livelli davvero bassissimi) dei titoli di Stato, ogni maggiorazione andrebbe pagata comprimendo ancora di più il bilancio pubblico (al netto della enorme riserva di liquidità messa giustamente da parte dal Tesoro). Fare il Monti con partenza ritardata al dopo-elezioni può essere una scelta legittima, ma spiegarlo agli italiani – a proposito di ricostruire un clima di fiducia e rilanciare la domanda interna – è un dovere.
Marco Palombi
Il Fatto Quotidiano 30.10.2014