Il cambio forte col dollaro ci strangola: per Prodi “la quotazione giusta è a 1,1-1,2”. Significa svalutare di più del 20%, cioè quel che succederebbe uscendo dall’eurozona.
La strada sbagliata non può portare nel posto giusto. La storia dell’euro è tutta qui, in questa frase la cui banale veridicità è stata fino a ieri negata dai politici tutti. Poi, però, sono cominciati i distinguo, che fra un po’ saranno una valanga, fino al classico “contrordine, compagni!”: “Ma non eri tu quello che diceva che senza l’euro?…” “Chi! Io?”
Che una moneta senza Stato non avesse senso, che partire dalla moneta fosse il modo più sicuro per non arrivare allo Stato, non è né una grande scoperta né una grande novità. Lo aveva affermato Nicholas Kaldor nel 1971, un mese dopo l’uscita del Rapporto Werner (il primo progetto di unione monetaria). Kaldor specificava che lo sforzo per restare nella moneta unica avrebbe causato tali pressioni sulle politiche fiscali nazionali da compromettere il futuro politico dell’Europa. Ora è sotto gli occhi di tutti. Quando nel 2011 Berlusconi disse (per poi smentirsi) che “il problema dell’euro è che è l’unica moneta al mondo senza uno stato”, la levata di scudi fu unanime. Tuttavia, dal punto di vista economico, la sua frase era più fondata dello squallido teatrino “sì all’euro, no all’austerità” al quale stiamo assistendo. Perfino Alberto Alesina e Francesco Giavazzi ammettono obtorto collo come fosse noto che con l’euro “si rischiava un aumento della tensione all’interno dell’Europa” (Corriere della Sera del 9 febbraio), anche se loro si rifanno all’ortodosso Martin Feldstein, che l’aveva detto nel 1997, pur di non citare il keynesiano Kaldor, che l’aveva detto 26 anni prima. Sapete, quando sei “sulla frontiera della ricerca” non hai tempo per guardarti indietro.
Tutta colpa dell’opinione comune
Che problemi di conti esteri potessero esistere anche all’interno di un’unione monetaria lo aveva affermato nel 1991 Tony Thirlwall, altro economista keynesiano, un anno dopo l’uscita di “One market, one money”, lo studio che esplorava costi e benefici della moneta unica. Studio imparziale, va da sé: pagava la Comunità europea, che la decisione l’aveva già presa per motivi politici. È difficile far capire qualcosa a uno, se il suo stipendio dipende dal non capirla. E così Jean Pisani-Ferry, coautore di “One market, one money”, ora che l’Europa è devastata da quella che tutti riconoscono essere una crisi di conti esteri (visto che, salvo errore, chi rivuole i soldi da greci, spagnoli ecc. sono soprattutto i tedeschi), ammette serafico, in un quaderno di ricerca del Bruegel Institute, che negli anni 90 era “opinione comune” che crisi simili non ci sarebbero state: “Noi non potevamo sapere, ci siamo basati sulla conventional wisdom”. Va bene, capisco: ascoltare un keynesiano no, ma almeno basarsi su un sano principio di precauzione, prima di metter su un progetto simile?
Che l’euro per l’Italia fosse una moneta sopravvalutata era ovvio: prima di entrarci avevamo rivalutato la lira rispetto all’Ecu del 16 per cento in un anno, raggiungendo nel maggio del 1996 la parità di 1939 lire per un Ecu, che avremmo di fatto mantenuto con l’euro. Da lì inizia il nostro calvario, il rallentamento della produttività (crescita media 1,9 per cento dal 1980 al 1995, 0,3 per cento in seguito) e delle esportazioni (crescita media 4,6 per cento dal 1980 al 1995, 0,6 dopo con la ciliegina della contrazione dello 0,1 nel 2013). Ma quello che sta scritto in ogni manuale (una moneta troppo forte mette in crisi le aziende) fino a un mese fa non si poteva dire. Chi è arrivato in soccorso della verità? Romano Prodi, che in una lezione su “Dove va l’Europa”, il 20 gennaio a Padova, ha detto che oggi l’euro è un problema perché “fortemente sopravvalutato: la sua quotazione corretta sarebbe 1,1 o 1,2 sul dollaro, mentre oggi siamo a 1,4”. Voi vi chiederete: “Ma fino a ieri non ci aveva detto che la moneta forte ci avrebbe protetto dalla crisi? E ora ci dice che la sua forza ci sta mettendo in crisi?” Se volete la mia, quella giusta è la seconda. Apprezzate un dettaglio: scendere da 1,4 a 1,1 significherebbe, per l’euro, svalutarsi del 21 per cento. Guarda caso, questa è più o meno la svalutazione che generalmente ci si attende da una ipotetica “nuova lira” in caso di uscita dell’Italia dall’Eurozona. Quindi non è come pensate voi, è peggio: Prodi dice che l’euro funzionerebbe bene per l’Italia… se fosse la lira. Purtroppo non è così. Le monete, come i politici, sono forti con i deboli e deboli con i forti. L’euro, forte per noi, è debole per la Germania. Con l’euro a 1,1 il surplus tedesco decollerebbe dall’attuale 7 per cento del Pil verso il 10. In Italia si troverebbe sempre qualche boccalone pronto a estasiarsi per la “bravura” dei tedeschi. Ma gli Stati Uniti hanno già fatto capire che non sono disposti ad assorbire un simile eccesso di offerta di beni tedeschi. La ripresa mondiale la aiuta chi importa (come loro), usando la propria domanda per far crescere gli altri paesi, non chi esporta (come la Germania), usando la domanda di altri Paesi per far crescere i propri profitti.
Quindi la soluzione non può essere avere un euro debole come la lira, perché questo metterebbe l’Europa in urto con gli Stati Uniti. Peggio ancora. Secondo Prodi, per indebolire l’euro, l’Italia dovrebbe unirsi con Francia e Spagna, minacciando la Germania. Capite? Difendere l’euro chiamando alle armi contro la Germania, rischiando in caso di successo una ritorsione degli Stati Uniti. Questo è l’europeismo dei nostri leader. La conclusione l’avrete capita: l’euro funzionerebbe se fosse come il marco per la Germania, e come la lira per l’Italia, cioè se scomparisse. Sincronizziamo gli orologi.
di Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano 03.03.2014